Secondo una tradizione storicamente ben fondata fu esattamente mille anni fa che un per quei tempi ormai anziano ravennate, Romualdo (952-1027), fondò un eremo nell’aspro e montuoso Appennino casentinese, tra la marca franco-longobarda di Toscana e la
Romania ancora profondamente legata al mondo greco-bizantino e da circa due secoli e mezzo sottoposta all’autorità del vescovo di Roma. Si trattava di un insediamento anacoretico di tipo almeno in Occidente nuovo, mentre nell’Oriente cristiano era ben noto sotto il nome di
lavra. In realtà, si trattava di un originale esperimento di composizione tra esigenze eremitiche e disciplina cenobitica: tra l’impulso che spingeva da secoli alcuni fedeli a cercare il silenzio e la solitudine per vivere un’esperienza d’isolamento e di preghiera e le esigenze e le opportunità che avevano invece suggerito ai grandi riformatori della vita monastica d’Oriente e d’Occidente – a Basilio e a Pacomio non meno che a Benedetto da Norcia – d’intraprendere la via della vita e della disciplina comune.D’altronde, la stessa tradizione anacoretica aveva da molti secoli rinunziato a certe esperienze selvatiche ed estreme. Gli stessi modelli del deserto egiziano della Tebaide, animati fra III e IV secolo dall’egiziano Antonio, e degli “stiliti” che seguendo l’esempio del siriaco Simeone vivevano appollaiati su alte colonne per fuggire i contatti col mondo, erano col tempo evoluti verso forme di aggregazione prossime a quelle comunitarie. Romualdo, attento a quanto accedeva appunto all’inizio dell’XI secolo nella Chiesa e nella società occidentali, elaborò un sistema fondato sull’equilibrio tra forme cenobitiche e forme anacoretiche: i suoi seguaci, che – non diversamente da quanto avevano fatto pochi anni prima i fondatori delle abbazie di Cluny e di Cîteaux in Francia – adottarono la
Regola di Benedetto da Norcia alla quale aggiunsero alcune norme specifiche corrispondenti alla loro vocazione, vivevano in modeste abitazioni (tuguri di fronde e piccole grotte, poi trasformate in casette) dove conducevano vite solitarie ma che erano contigue tra loro anziché disseminate come voleva l’antica tradizione anacoretica, e raccolte all’interno di una cinta muraria nella quale si trovavano anche gli edifici deputati alla preghiera, all’assunzione comune del vitto e insomma a tutte quella attività che andavano vissute in comune. Tale era il modello bizantino ed orientale della
lavra.I monaci che, dalla foresta casentinese di Strumi o di Camaldoli che li ospitò, assunsero il nome di “camaldolesi” e si qualificarono come Congregazione all’interno dell’Ordine benedettino, adottando anche l’ampio abito dei figli di Benedetto come veste monastica ma tuttavia mutandone in termini di qualificazione specifica il colore dal nero al bianco. L’esempio camaldolese venne seguito non troppo tempo dopo da un altro ravennate, Pier Damiani (1007-1072), che fondò un’abbazia a Fonte Avellana pressso Gubbio, al confine tra Umbria e Marche e che più tardi s’impegnò fortemente nella riforma della Chiesa, nella lotta contro le ingerenze della nobiltà laica nella vita ecclesiale e – come teologo – contro quelle tendenze nel pensiero ecclesiastico che gli sembravano mettere in pericolo il concetto di onnipotenza divina e rappresentare un cedimento nei confronti della filosofia mondana. Analoga scelta rispetto a quella di Romualdo sarebbe stata fatta pochissimo tempo prima da Bruno di Colonia (1035-1101), il quale nell’area forestale presso Grenoble fondò, in un luogo detto la Chartreuse, un’altra Congregazione benedettina: i suoi seguaci assunsero il nome di “certosini” e adottarono sia il sistema monastico insediativo della
lavra, sia la veste candida. Intanto, sempre sull’Appennino tosco-emiliano e quindi non lontano da Camaldoli, con l’appoggio della potente dinastia feudale dei Guidi un personaggio convertitosi a Firenze dopo una tumultuosa esperienza di lotte e di vendette, Giovanni Gualberto (995-1073), fondò nei boschi di Vallombrosa un’altra abbazia centro di un’ulteriore Congregazione benedettina, chiamata appunto “vallombrosana”.Questo fiorire di personaggi e di fondatori-riformatori dell’Ordine benedettino proprio nello scorcio tra X e XI secolo rappresentò un evento profondamente significativo. Ecco perché è storicamente necessario presentare Romualdo da Ravenna all’interno di questo contesto, che non rischia affatto di sminuirne l’importanza e l’originalità ma che vuole, al contrario, sottolineare quanto tempestiva e fortunata fosse la sua iniziativa. Un po’ troppo spesso, difatti, la sue esperienza viene considerata come “eccessivamente mistica” ed “estrema”. In realtà Romualdo, come Pier Damiani e Giovanni Gualberto, erano vicinissimi alla concreta problematica del loro tempo e immersi, pur salvaguardando la loro vocazione mistica, nelle vicende sociali di allora. Camaldolesi e vallombrosani, appartenenti a Congregazioni i fondatori delle quali avevano solide radici in ambienti cittadini vivaci come quello ravennate e fiorentino, vissero appieno il risveglio demografico, sociale, economico e politico del loro tempo, lottando aspramente e coraggiosamente contro gli avversari della riforma della Chiesa. E difatti la riforma morale e disciplinare della Chiesa latina, che essi favorirono e sostennero, condusse a una profonda ridefinizione della compagine ecclesiale d’Occidente e della funzione pontificia.L’attività monastica che essi promossero si tradusse in un impulso formidabile nel senso del lavoro e della produizone. Camaldolesi, avellaniti, vallombrosani, certosini, cluniaceni e cistercensi seppero essere all’avanguardia nel rinnovare spiritualità e vita liturgica del loro tempo, ma anche nel promuovere i disboscamenti, le bonifiche, i dissodamenti, la produzione agricola e zootecnica. Tutto ci costituisce una prova di più di quanto positiva sia stata l’antica tradizione cattolica di accompagnare la vita spirituale intensa all’impegno produttivo e alla crescita del benessere, secondo la vocazione primitiva dell’
Ora et labora benedettino. Il lavoro è preghiera, è forza spirituale; ma, senza lo spirito, la produzione diventa solo una forza di morte. Ecco perché ricordiamo Romualdo da Ravenna.