venerdì 21 maggio 2010
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Scrivere un libro a quattro mani con Massimo Cacciari, e su un oggetto come il primo comandamento: Io sono il Signore Dio tuo (il Mulino), è stato cogliere l’occasione per proseguire un dialogo di larghi orizzonti che ormai procede da più di vent’anni. A cose fatte, dopo aver letto il saggio scritto dal noto filosofo per questa occasione, mi è spontaneo annotare qualche riflessione e proporre qualche quesito. La prima cosa che mi pare doveroso sottolineare è che ci troviamo tra le mani un saggio significativo e impegnativo. Il filosofo indaga da par suo «le condizioni o ragioni per così dire a priori che rendono possibili» i "diversi destini" del monoteismo: la lotta per preservarne la purezza e assolutezza e insieme la relazione con l’esserci nella sua finitezza. «Tutto muta – egli precisa – se tale relazione è intesa come immanente allo stesso Uno-Dio, o se l’Uno-Dio viene equiparato alla pura sostanza, all’Essere-degli-esseri, o ancora se l’Uno-Dio viene exaltatum sopra ogni determinazione di essenza». In questa prospettiva, Cacciari rimarca che il significato rivoluzionario e universale della rivelazione mosaica non sta nel testimoniare l’irrompere di un Dio in lotta per l’egemonia ma nell’«identificare con questo Unico l’essenza stessa del theion (il divino)».La questione nasce quando, muovendo da quest’assunto, si cerca «da filosofo» di «dare ragione del Dio vivente biblico». È a indagare questo formidabile problema che è chiamata il logos dell’uomo: si tratti del logos greco e di quello ebraico della diaspora ellenistica prima, di quello cristiano dei secoli fondatori dell’identità ecclesiale poi, di quello infine della modernità. Cacciari esamina e decostruisce, in particolare, le proposte teoretiche di quest’ultima: quella di Spinoza, quella di Hegel e soprattutto quella di Schelling, evidenziandone le rispettive aporie. Non mi soffermo su questa serrata scorribanda teoretica. Vengo subito, piuttosto, al punto di vista guadagnato da Cacciari, che condivido senz’altro come approdo e punto di un nuovo inizio. Si tratta della straordinaria invenzione (nel senso classico del concetto: e cioè come ritrovamento di un dato offerto al pensare nella rivelazione) del Deus Trinitas proposta dai Padri della Chiesa. «Tre ipostasi, una sola sostanza, ousía. Tour de force impossibile, grida la "ragione". Ma non si tratta di un teorema logico, si tratta di corrispondere con la massima esattezza al senso del Revelatum» poiché «è la stessa novitas dell’Annuncio [di Gesù e della Chiesa su di lui] a imporlo». È questa un’affermazione cruciale: la dottrina del Deus Trinitas è la via segnata dall’Annuncio di Gesù alla risoluzione – teoretica e pratica – del "problema" del monoteismo.Fin qui la consonanza. Ma a questo punto si profila un’ulteriore, e delicata questione: quella di una pertinente intelligenza del Deus Trinitas. A questo riguardo capisco certo la formidabile e inaggirabile istanza cui Cacciari vuol rispondere: occorre salvaguardare, a un tempo – e proprio per rispetto al Revelatum – l’abisso del mistero di Dio e la libertà della relazione che in Dio vive, insieme alla libertà della creatura cui la relazione gratuitamente si rivolge. Ciò, a parere di Cacciari – e una ragione almeno in parte egli ce l’ha, per la negligenza di un certo pensare teologico – non è garantito quando la persona dello Spirito Santo, il terzo tra il Padre e il Figlio, è «ridotto, come si continua sostanzialmente a sostenere, a simbolo della relazione amorosa, reciprocamente accogliente, tra le altre due Persone... Non si comprende la Vita intradivina dell’Unico Dio senza caratterizzare il volto dello Spirito, che ne rappresenta il segreto più intimo». Ma qual è la caratterizzazione pertinente? «Lo Spirito – argomenta Cacciari – è il "volto" della Relatio che mostra "ciò" che la eccede. (...) Nella Relatio l’ipostasi dello Spirito è il fondamento della Persona paradossale che si ri-volge all’arché comune e inattingibile, all’eterno Passato dell’eterno Presente di quell’"Io sono" trasformatosi nell’"Unum sumus"», e cioè nell’«Io e il Padre siamo Uno» di Gesù nel quarto vangelo (cfr. Gv 10,30).  È qui, mi pare, che va posta la questione decisiva: la salvaguardia della relazione in Dio come libertà è collocata con pertinenza quando la si coglie nel riferimento alla differenza smisurata dell’Inizio (in Dio stesso) come libertà? La mia risposta è: penso di no. Lo Spirito non va "sciolto" dalla relazione per garantire la libertà e l’inesauribilità di Dio, ma va piuttosto seguito nel suo guidarci a penetrarne il mistero nel segno dell’amore: quell’amore-agape che è Dio stesso (cf. 1Gv 4,8.16) rivelato da Gesù Crocifisso e Risorto. Egli, lo Spirito, non è certo, come rischia certa ermeneutica teologica addomesticata di farci fraintendere, il "chiuso" soddisfatto della relazione tra Padre e Figlio, ma è piuttosto il non ritorno su di sé che in essa si esprime – da parte dell’uno e dell’altro – e, per questo, è lo sguardo e il soffio del e verso l’inesauribile di Dio nel segno di ciò che è sempre nuovo e aperto e al di là: nel donarsi e condividersi sempre di nuovo, in una pienezza che è sempre più piena, ma mai definitivamente raggiunta e posseduta dalla creatura.In consonanza con questa discriminante precisazione, vengo a un ultimo spunto che mi pare del massimo rilievo per la prosecuzione del dialogo. Esso concerne la nozione di Revelatum a partire dalla quale Cacciari muove nella sua ricerca. Tale nozione, intesa così come mi sembra da lui intesa, rischia di pensare la rivelazione solo come un factum, un positum di cui occorre tener conto, indiscutibilmente: ma senza entrarvi dentro, senza prendervi parte. Il che significa, inevitabilmente, esercitare l’intelligenza rispetto al Revelatum senza però essere determinati (gratuitamente e liberamente) dall’evento stesso che la Revelatio è. Prendiamo il detto del Paraclito che troviamo nel Vangelo di Giovanni, nei discorsi della cena: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò cha avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15). In questo detto, lo Spirito è presentato come colui che prende tutto ciò che Gesù ha ricevuto dall’Abbà e lo distribuisce con libertà e liberalità in vista della koinonía dei molti nell’Uno. Egli si mostra così come l’intimo di Dio che ne è al contempo l’estremo. È il darsi dell’Abbà nel Logos fatto carne e pane che è offerto dallo Spirito e nello Spirito come dono a chi lo riceve in quanto questi, a sua volta, lo possa comunicare. Forse, Cacciari mi ribatterebbe citando 1Cor 2,10ss: dove si parla dello Spirito che scruta ogni cosa, anche «le profondità di Dio». Tale Spirito però – precisa subito Paolo – è proprio ciò che Dio ci ha donato per conoscere tutto ciò che da Dio viene, in «parole dello Spirito». È possibile dunque intelligere questo Revelatum senza che esso non stia più semplicemente "di fronte" al pensare, ma entri "nel" pensare stesso?
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