«Non riesco a capire come ci sia sfuggito... ». Per chi conosca la meticolosità di Nomadelfia nel raccogliere tutto quanto riguarda il fondatore, e magari abbia pure visitato il bunker che nella comunità grossetana conserva (a prova di cataclismi) gli innumerevoli scritti e le registrazioni del sacerdote morto giusto 30 anni fa, l’affermazione ha un sapore tutt’altro che banale. Riscoprire infatti oggi un testo dimenticato che riguardi don Zeno Saltini, e per di più a firma del grande Dino Buzzati, è un evento davvero notevole. Eppure è successo al presidente di Nomadelfia, Francesco (il cognome laggiù non usa), che da anni è anche il responsabile del precisissimo archivio, il 26 maggio scorso; data non casuale, visto che il lungo articolo ritrovato è apparso sul
Corriere della Sera proprio il 26 maggio 1965.A 45 anni di distanza dalla prima pubblicazione, e a tre decenni dal «passaggio al cielo» di don Zeno (avvenuto il 15 gennaio 1981), rivede dunque la luce un prezioso documento della lunga amicizia che unì Buzzati al prete emiliano e che ora è narrata da
Il coraggio della bontà, scritto dalla giovane ricercatrice 'buzzatiana' Sara Di Santo Prada per Ibiskos Editrice Risolo (pp. 196, euro 12). Finora erano noti 7 articoli scritti dal giornalista-romanziere su Nomadelfia, tra il maggio 1949 (quando la città dove «la fratellanza è legge» aveva ancora sede a Carpi, presso Modena) e il novembre 1965; quindi anche durante il burrascoso periodo in cui, per debiti e scarsi appoggi politico-ecclesiali, la comunità rischiò il fallimento e il fondatore dovette chiedere la laicizzazione temporanea. Nel maggio 1965 la crisi era però rientrata (tre anni prima don Zeno aveva celebrato la sua «seconda prima messa») e per Buzzati fu anche l’occasione di recarsi per la prima volta in visita nella cittadella toscana. Di quella volta è rimasta la trascrizione di un incontro tra il giornalista – che aveva appena seguito la visita di Paolo VI in India – e il fondatore della comunità, nonché due articoli apparsi sul
Corriere; il primo dei quali – e forse il più importante – è appunto quello recentemente ritrovato e ora ripubblicato nel saggio della Di Santo Prada.L’ottavo pezzo buzzatiano su Nomadelfia appare notevole non solo perché scritto «a caldo», quasi direttamente dagli appunti presi dal cronista sul suo taccuino (la visita avvenne il 20 e 21 maggio, il reportage apparve appena 5 giorni dopo), ma anche perché – sono parole dell’autrice del volume – è il testo «più 'intimo' dell’uomo Buzzati, un testamento spirituale, piuttosto una confessione». In effetti l’articolo, intitolato «Riesce l’inverosimile esperimento», rende in più punti la sincerità con cui l’autore – all’epoca già molto affermato, sia come professionista dell’informazione, sia come scrittore – si confronta con la provocazione evangelica di Nomadelfia: «Possibile che degli uomini di carne ed ossa come noi – strilla già il sommario – abbiano potuto realizzare il Vangelo in piena letizia? Si va a Grosseto, si guarda, si ascolta e si resta sbalorditi». «Siamo a 12 chilometri da Grosseto», annota Buzzati con scrupolo da cronista. Ma subito dopo rilancia il dato di fatto ben più in là: «Dodici, o 12 miliardi di chilometri? Vien fatto di chiedersi, tanto ci si sente lontani dal solito mondo. Perché qui a Nomadelfia avvengono cose incredibili. Il sogno dei santi è qui diventato realtà quotidiana... Chi arriva per la prima volta ha il dubbio che sia tutta una montatura, retorica, belle parole, illusione. Poi guarda, ascolta, domanda e resta imbesuito».Quest’articolo dev’essere piaciuto parecchio a don Zeno. E non solo perché in 5 colonne, sul maggior quotidiano della Penisola, ripropone slanci e disavventure nonché la vita quotidiana della comunità delle «mamme di vocazione»; ma perché in effetti coglie il significato originariamente «rivoluzionario », anzi «eversivo» (in senso evangelico), che il fondatore ha inteso dare alla sua creatura fin dagli inizi. «Cambio civiltà cominciando da me stesso», aveva infatti stabilito il giovane Zeno durante il servizio militare, quando era soltanto uno studente in Giurisprudenza, innamorato della vita, del ciclismo e delle motociclette; e non aveva mutato il drastico parere nemmeno da sacerdote, anzi compiendo il giorno stesso della prima messa un gesto irrevocabile: adottare come figlio un giovane disadattato. D’altra parte Buzzati – che pure ha alle spalle quasi 40 anni di giornalismo – non sembra ancor sazio dell’elementare etica del cronista, espressa coi verbi elementari del mestiere: «guardare», «ascoltare », «domandare», per poi giudicare il valore di una notizia. E il suo responso laico su Nomadelfia è netto: «È un fenomeno tale che non si spiega come l’intero mondo non ne parli... Da parecchi anni non se ne sentiva più parlare. Eppure in questi anni Nomadelfia ha tenuto duro, si è fatta le ossa... Una comunità che vive secondo il Vangelo, dove quello che è mio è tuo, dove nessuno tranne gli amministratori maneggia denaro, dove la proprietà non esiste: si penserebbe a una specie di convento, o di squallido e triste collegio. Ciò che invece colpisce di più a Nomadelfia è l’allegria generale, le facce aperte e distese».Ma non è sufficiente. A quasi sessant’anni, lo scrittore mostra nell’articolo di aver mantenuto pure eccezionale freschezza e sincerità di spirito – quali del resto ci si attende dall’autore di certi racconti surreali e mistici –, tanto da lasciarsi interrogare intimamente dai fatti: Nomadelfia «senza dire una sola parola, ci fa il più doloroso rimprovero, ci fa capire come sia sbagliato il nostro modo di vivere, gli affanni, i desideri, le vanità, eccetera, la corsa disperata dietro il vento. Essere ricchi, essere famosi, essere invidiati. Bella roba! Per quanto si faccia non basta mai. Mai sazi, mai tranquilli! E pensare che sarebbe così semplice. La bontà. Volersi bene. Loro ci sono riusciti e noi no».Assolutamente buzzatiana appare poi la chiusa, un episodio che l’autore narra in terza persona ma che pare invece sia avvenuto proprio a lui, in occasione di quella visita a Nomadelfia: «Una volta arriva un giornalista straniero, che aveva l’aria di non credere a niente. Si rivolge a un ragazzetto e gli fa vedere un altro bambino. 'Quello là – gli chiede con una faccia da presa in giro – quello là è un tuo fratello?'. 'Perché? – gli ha risposto il bambino –. Non è anche fratello tuo?'». L’autore dei Sessanta racconti non avrebbe inventato di meglio.
Roberto BerettaFu il 1950, anno del Giubileo, ad avviare la lunga amicizia tra il maestro del neorealismo Pietro Germi (1914-1974) e il fondatore di Nomadelfia. Un’amicizia nata per caso, soprattutto grazie allo storico collaboratore di Germi e autore di colonne sonore Carlo Rustichelli (compose, tra l’altro, l’inno di Nomadelfia). Occasione fu la proiezione in anteprima del film di Germi
Il cammino della speranza, presente tra gli altri Vittorio De Sica. Entusiasta fu il commento di don Zeno:«Germi non sa di essere profondamente cristiano, e dire che qui va all’osso del cristianesimo». Lo stesso Germi – autore di capolavori come
Il ferroviere,
Divorzio all’italiana o
Sedotta e abbandonata – ammise del resto di essersi ispirato per quella pellicola «ai temi fondamentali della morale cristiana». Ma non finì lì: nel 2004 infatti lo storico del cinema Marco Vanelli, sfogliando nell’archivio di Nomadelfia l’epistolario intercorso tra i due dal 1950 al 1969, ha scoperto una sceneggiatura inedita di Germi sulla vita di Gesù. «Germi – ha rivelato recentemente Claudio Bondì, autore per La7 di un documentario dedicato al regista genovese – aveva affidato a don Zeno quel testo scritto nel 1944, in un momento difficile della storia italiana e mentre si affacciava al mondo del cinema. Forse aveva collaborato a un film sui
Dieci comandamenti».Il carteggio testimonia il consenso di don Zeno per l’attenzione di Germi al cristianesimo delle Beatitudini, agli umili, a quei «povericristi» falliti raccontati in molti film e alla sua ammirazione per la figura di san Francesco, oltre al suo invito ai nomadelfi per un impegno concreto nel rinnovamento della società italiana. L’epistolario fa affiorare anche la richiesta di don Zeno, quasi un «tormento» per Germi, di realizzare un documentario dedicato a Nomadelfia, sullo stile del film
Il cammino della speranza. Il rapporto fra il regista e il prete continuerà per anni. Ne sono testimonianza le visite, il sostegno economico del grande artista e molte lettere, alle volte semplici invii di auguri, altre più sentite righe di partecipazione. Come quella del 22 gennaio 1962 in cui, schivo come al solito e temendo un contesto troppo "ufficiale", Germi scrive all’amico per giustificare la sua assenza in occasione del ritorno di don Zeno a celebrare messa dopo 8 anni: «Ti sono comunque vicino con tutto il mio cuore di miscredente». Grazie all’influenza discreta di don Zeno si mette dunque in luce, forse in modo involontario, l’anima sotterraneamente religiosa di Pietro Germi, simile in fondo al protagonista di un suo film
Uomo di paglia, che di fronte all’edicola di una Madonna non riesce a farsi il segno della croce ma porta la mano destra all’altezza della fronte e poi si aggiusta il cappello. A suffragio di questa tesi di un Germi sulla soglia della Chiesa stanno le parole, prese dalla liturgia di Pentecoste, incise sulla tomba del cineasta a Castel di Guido (Roma): «Vieni, Spirito Creatore. Vieni, Santo Spirito. Vieni, Padre dei poveri. Vieni, luce dei cuori».
Filippo Rizzi