mercoledì 7 dicembre 2016
Il direttore ha restituito la ruvidezza e la violenza delle partitura, caduta sotto i fischi nel 1904, e questa volta accolta da quattordici minuti di applausi. Efficace la regia di Alvis Hermanis.
Dolore e verità: Chailly riscatta la "Butterfly" come la volle Puccini
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A vederla da lontano non sembra. Tanti kimono, ciliegi in fiore, una casa con le pareti di carta a evocare il Giappone di ieri. Eppure quella che ieri sera ha aperto la nuova stagione del Teatro alla Scala è una Madama Butterfly al tempo dei social network. Facile, diresti. Diretta Twitter con telecamere dappertutto a catturare volti ed emozioni in platea e dietro le quinte. Ma la Butterfly di Riccardo Chailly e Alvis Hermanis è social nello spirito. Perché se la prima impressione quando si apre il sipario è quella di un salto indietro nel tempo, al Giappone del 1904 quando Giacomo Puccini scriveva.


L’idea si concretizza di lì a poco: la parete bianca della casa si riempie di proiezioni, sì affolla di personaggi e pensi ad una pagina di Facebook, dove posti foto e scrivi sentimenti. Così come immagini (stampe giapponesi di inizio Novecento) e sentimenti (quelli di Butterfly che prima ama e poi soffre) si affollano sulla scenografia (di Hermanis e Leila Fteita) che diventa quasi lo schermo colorato di uno smartphone. Qualcuno nell’intervallo controlla il telefono e butta sul suo profilo due impressioni e una foto.
Dopo l’emozione de l’Inno di Mameli, (suonato anche se in teatro non era presente il Presidente Mattarella), scatta l’applauso. Poi inizia la musica. «Ma questo è l’inno americano» osserva giustamente un signore. Le note Usa ci sono, fuse con melodie giapponesi perché Puccini in Butterfly racconta due mondi che si incontrano e si scontrano. Quello del marinaio americano Pinkerton e quello giapponese, fragile e destinato a soccombere, di Cio Cio San.

Che subito appare sola. Seppure circondata da parenti e amici, sola con il suo amore che si fa dolore. Così la vuole Hermanis, che la racconta nella sua fragilità, ma anche nella sua determinazione di donna. Perché Cio Cio San ci crede al finto matrimonio e dopo che il marito è partito arreda la sua casa e si veste all’americana. Colpo di teatro che apre il secondo atto. Un marchio che la vede ancora più sola tra la sua gente.


Così la vuole Chailly. Lo senti nei tempi nostalgici, nel colore che accompagna ogni parola della ragazza, vero come la vita. Il direttore racconta la tragedia con gli occhi di Cio Cio San e accende su di lei una luce che, nella tragedia, trasmette speranza. Quella luce di pietà e misericordia che Puccini mette nella musica. Che alla Scala è quella della versione originale andata scena proprio a Milano, nel 1904. Partitura naufragata allora e risistemata da Puccini. Ora però ricostruita e restituita in tutta la sua durezza. Perché la Butterfly originale, che alla prova del palco funziona, suona ancora più ruvida nel raccontare quello che oggi chiameremmo scontro di civiltà, un mondo che ingloba l’altro, lo compra a suon di dollari come fa Pinkerton che oggi, forse, posterebbe sui socia le sue foto con Butterfly.


Hermanis sceglie atmosfere da kabuki. Immagini poetiche, quadri che si compongono e si scompongono, rivelati dalle pareti della casa in continuo movimento, agitate come l’animo di Butterfly. Sposta l’azione tutta in proscenio per avvicinarla ancora di più al pubblico al quale chiede di calarla nel nostro tempo. Come fa Chailly che affonda il gesto nella musica, chiede un suono che sa di arcaico perché racconta i sentimenti dell’uomo che sono gli stessi ieri come oggi. Così melodie che abbiamo nell’orecchio nella lettura intima di Chailly suonano ancora più carichi di dolore. Quello di Cio Cio San, sola, come tanti che oggi si rifugiano dietro uno schermo per provare a essere ciò che non sono o per tendere una mano gridando il proprio dolore.


E ce ne è molto nella Butterfly di Chailly che crede in questa versione e riesce a restituirla appieno, riscattandola 112 anni dopo (accolta da 14 minuti di applausi). Lo fa con la voce scura e screziata di Maria José Siri al suo debutto nel ruolo di Cio Cio San. Così come è il primo Pinkerton quello di Bryan Hymel. Emozionati e veri come la Suzuki di Annalisa Stroppa e lo Sharpless di Carlos Alvarez. Personaggi che si incontrano davvero e si riconoscono solo nel momento della tragedia finale, quando Butterfly, scoperto il tradimento del marito, cede a lui il figlio e si suicida sgozzandosi in un chiarore abbagliante e sotto gli occhi di tante ragazze in kimono. Ma ancora una volta sola. Il suo dolore diventa quello di molti. Si fa vita. Perché fuori dal teatro I sindacati chiedono lavoro per chi non arriva a fine mese. E dentro, nel Palco Peale, quattro cittadini di Accumoli e Arquata del Tronto dicono che le ferite del terremoto sono ancora aperte. E ancora una volta, potenza della lirica, vita e finzione quasi come su un social si confondono.

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