Etiopia, centinaia di persone ritornano a casa dopo una notte di veglia (© Monika Bulaj)
Etiopi avvolti negli scialli di mussola bianca che tornano a casa dopo una notte di veglie e canti, i samaritani in Israele sul monte in cui Abramo offrì in sacrificio suo figlio a Dio, i pellegrini russi negli Urali, le bambine albanesi che studiano il corano nella moschea di Sinan Pasha a Prizren, le cerimonie voodoo a Haiti, le donne di Canosa di Puglia velate, in nero, per la processione della Desolata. Le immagini scorrono una dopo l’altra componendo l’itinerario di un lungo viaggio. Posti lontani. Con persone assai diverse. Eppure unite da un comune respiro di fondo, dallo stesso sguardo verso l’alto, da un’«atmosfera» simile che le avvolge. Uomini e donne sotto lo stesso Cielo. «In greco e in latino – scriveva lo storico delle religioni Elémire Zolla – si parla del fascino come di una brezza, un’aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce». È l’atmosfera che respira la fotografa e reporter polacca Monika Bulaj girando per il mondo delle fedi: «Sento un’aura simile, un carisma nel dolce cantilenare del Padre Nostro nella lingua di Cristo sull’Eufrate, nell’emergere dell’armonia delle quinte dalla tempesta di voci degli hassidim di Rabbi Nachman in Galilea, nei vocalizzi ipnotici e nei sospiri profondi dei sufi chishti di Kabul, nelle preghiere dello shabbat ad Antiochia». È l’atmosfera che rilasciano le pagine di Where Gods Whisper, Dove gli dei si parlano (Contrasto, pagine 248, euro 45,00, da ieri in libreria), l’ultimo lavoro della Bulaj che al Festivaletteratura di Mantova diventa anche spettacolo (domani alle 18.30 al Teatro Bibiena) con un performing reportage teatrale per raccontare con parole e immagini luoghi e persone dove il sacro «rompe i confini». In un continuum con precedenti e intensi lavori della Bulaj: Genti di Dio. Viaggio nell’altra Europa (Frassinelli) e Nur. La luce nascosta dell’Afghanistan (Electa).
«Da molti anni – scrive Bulaj – viaggio lungo i confini dei monoteismi, in oasi d’incontro assediate da fanatismi armati, nelle patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Asili delle fedi, come il Bosforo, sul quale le donne armene e turche si addormentano insieme accanto al sepolcro di un santo bizantino, praticando l’incubatio, di cui si scriveva già prima di Erodoto, anestetizzando con il sonno la memoria dello sterminio che le divide. Come i monasteri nel deserto egiziano, attaccati dai fanatici. Come il Kosovo, dove i musulmani venerano lo sfortunato santo dei serbi re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Come Damasco, dove cristiani, musulmani, sciiti e sunniti pregano fianco a fianco nella moschea degli Omayyadi, presso il catafalco di Giovanni Battista e sotto al minareto di Cristo. Come il monastero Deir Mar Musa, le cui pietre sono state posate nuovamente da cristiani e musulmani, perché qui hanno pregato insieme per un millennio, nella stessa Siria».
Un lavoro cambiato nel corso degli anni. «All’inizio documentavo piccole e grandi religioni all’ombra di guerre antiche e recenti, e sulle loro ceneri. Poi, a un certo punto – confessa Bulaj –, sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele». La chiusura è in una frase che restituisce tutto il senso di un mestiere: «Forse questo può fare il fotografo, raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che gli sembra giusto, o forse solo possibile, sognando quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo». Una lezione. Di fotografia. E di vita.