lunedì 2 agosto 2010
Nell'iconografia monumentale post risorgimentale confluiscono i filoni più disparati: razionalista, romaneggiante, sabaudo. Il risultato, opere ambigue e spesso non riuscite.
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Le due quadrighe bronzee poste ai due estremi dei propilei del Vittoriano di Roma, più noto come Altare della Patria, e che si stagliano alte sul cielo di Roma, sono dedicate all’Unità della Patria e alla Libertà dei cittadini. L’illustre, immenso, imperdonabile "coso marmoreo" progettato nel 1884 dall’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi e inaugurato nel 1911 è in qualche modo il monumento culminante e riassuntivo di un complesso iter ideologico e simbolico: quello del Risorgimento, dell’Unità nazionale e dei valori che si vollero loro attribuire. La solenne e mostruosa sfida alla basilica di San Pietro, che i romani non hanno mai amato e che hanno ferocemente battezzato – a causa della sua forma – "la macchina da scrivere", doveva essere originariamente un omaggio al sovrano dell’Unità, Vittorio Emanuele II: ma divenne si può dire da subito il vero e proprio Altare della religione laica della patria, simboleggiata da due monumenti in qualche modo concorrenti, in qualche altro complementari ma anche reciprocamente estranei: la grande statua bronzea del sovrano dell’Unità a cavallo e, scolpita sul basamento marmoreo che la sostiene, l’immagine della dea Roma rappresentata come una marmorea, armata Minerva, affiancata dai bassorilievi del Lavoro e dell’Amor patrio. Bisogna notare che la dea Roma non poteva identificarsi immediatamente nella tradizionale immagine dell’Italia cinta della "corona merlata" sulla fronte della quale rifulge una stella: due belle e floride donne entrambe, cinte di classico peplo, ma caratterizzate dalla corona simbolo di sovranità civica e di libertà l’una, dal marziale elmo a tre creste l’altra. L’Italia materna e feconda, Cerere-Demetra; e Roma sapiente e marziale, Minerva-Atena. Libertà, Lavoro, Fecondità, Opulenza, valori di pace, l’una; Vittoria, Volontà, Conquista, valori di guerra, l’altra. Due differenti, contrastanti programmi simbolicamente evocati: eppure già ambiguamente, forse addirittura contraddittoriamente e paradossalmente intrecciati già fino da quello che con l’Inno di Garibaldi si considerava l’inno nazionale per eccellenza: quello di Mameli. Goffredo Mameli rappresenta infatti la patria che, ridestata da un lungo sonno (Ri-sorgimento, appunto: ma quando si sarebbe addormentata?), si cinge immediatamente dell’Elmo di Scipio, eredità romana e repubblicana, mentre la Vittoria deve "porgerle la chioma". Tale Vittoria però non viene proposta come liberatrice contro un oppressore, come in omaggio alle battaglie risorgimentali ci si aspetterebbe, ma pegno di conquista, in quanto Iddio l’avrebbe creata "schiava di Roma". In ultima analisi, quindi, Italia e Roma vengono a coincidere. Un’immagine confermata dall'Inno di Garibaldi, con la sua "resurrezione laica" («Si scopron le tombe / si levano i morti / i martiri nostri / son tutti risorti») nella quale gli eroi della patria sono a loro volta classicamente evocati come cinti d’alloro. La simbolica dell’unità e della libertà, durante l’intero arco dell’Ottocento e nella stessa prima metà del Novecento, si era ispirata più o meno in tutta l’Europa (Gran Bretagna e Russia comprese) all’antichità soprattutto greca (specie in Germania), ma anche romana repubblicana, per il tramite della Rivoluzione francese che aveva canonizzato l’uso dei simboli-chiave dell’unità e della sovranità popolare (il fascio littorio), della forza e della vittoria (le fronde e le corone di querce e d’alloro), dell’ideale di libertà e di sapienza (la stella a cinque punte, con allusione antropocentrica alla figura dell’"Uomo di Vitruvio"), della liberazione dalla tirannia (il "berretto frigio" dei liberti e il pugnale di Bruto). L’età napoleonica aveva mantenuto grosso modo la medesima simbolica, facendo significativamente scomparire il pugnale e mettendo da parte il berretto frigio per sostituirli con l’aquila imperiale, segno di autorità e di dominio.Tale cammino simbolico era stato sostenuto dall’affermarsi di una cultura e di un’estetica: quelle del Neoclassicismo, maturate durante l’età illuministica e sostenute da una più o meno implicita volontà di obliterazione dei simboli religiosi cristiani in generale, cattolici in particolare, nel nome dell’affermarsi del "teismo" filosofico (l’affermazione di un principio "divino" sottostante al cosmo e alla natura, ma non identificantesi nel Dio personale e creatore di Abramo) e dei fondamentali culti della Ragione e della Natura. Il Romanticismo, affermatosi nel primo Ottocento, si era configurato come una forte reazione a quei simboli e a quei valori: il cristianesimo era tornato in auge e una nuova estetica, quella neogotica, si era opposta a quella neoclassica. Si trattava in fondo di due estetiche "ideologiche" volte entrambe al passato, ma con una connotazione avvertita come polemicamente opposta: al neoclassicismo sentito e interpretato anche come neopaganesimo si contrapponeva il neogotico in quanto arte "della fede" e "delle cattedrali", intrinsecamente cristiana. Anche all’interno dell’organizzazione che fin dal Settecento era stata la fucina delle idee di progresso, di libertà, di emancipazione civile e di umanitarismo, la massoneria, quel conflitto estetico-simbologico si era fatto avvertire: e si era espresso in un affiancarsi di simboli desunti dall’antichità greco-romana (come appunto le corone di querce, di alloro e della "sapienziale" acacia) ad altri che richiamavano a un teismo collegato tuttavia alla Bibbia in quanto la mitologia massonica non poteva separarsi dal mito della costruzione del Tempio di Salomone (quindi il triangolo raggiante al cui centro era raffigurato l’Occhio divino, con una suggestione desunta dall’antico Egitto, e ancora sia la piramide, sia le Tavole della legge mosaica) e ad altri ancora che sottolineavano la devozione degli adepti, (sempre nel nome della "costruzione del Tempio") al lavoro e al progresso (la stella a cinque punte simbolo della luce della Ragione umana, il compasso, la squadra dei costruttori). Il nostro Risorgimento, attraverso le organizzazioni carbonare prima e mazziniane poi – in vario contatto con le logge massoniche – ereditò questa varietà simbolica e l’adattò alle sue necessità con una quantità di non sempre coerenti e anzi talora ambigue variabili. Carbonari e mazziniani, organizzatori anche di sodalizi di artigiani e di lavoratori, trasferirono nel linguaggio simbolico del nascente movimento operaio i simboli massonici che si riferivano alla "Grande Opera", come appunto compasso e squadra, originariamente dotati di valore iniziatico. La stessa passò da simboli dell’umano intelletto indipendente dalla luce del Sole divino (simbolo quindi di una visione del mondo etsi Deus non daretur) a simbolo di libertà e delle "mirabili sorti e progressive" dell’umanità, cui più tardi il socialismo avrebbe fornito anche il suo colore simbolico, il rosso: e anche le insegne del "quarto stato", la falce dei contadini e il martello degli operai, si affiancarono e col tempo si contrapposero a compasso e squadra sentite come simboli di produzione e di lavoro "borghesi", ma sempre nel quadro sintattico di un immaginario i modelli del quale rimanevano massonici. Infine il fascio littorio, simbolo fondamentale della repubblica giacobina come tale adottato da mazziniani e da garibaldini, divenne l’emblema principale di quanti ispiravano all’unità repubblicana liberata da qualunque presupposto cristiano. Simboli tragicamente opposti e paralleli, la croce e il fascio, entrambi rinvianti al sacrificio della vita e alla resurrezione: la prima al martirio del Cristo morto e risorto; il secondo alla punizione dei traditori della patria e alla decapitazione dei tiranni, dal sangue dei quali scaturisce l’unità e la libertà del popolo. La Repubblica romana del 1849 assunse a suo simbolo, mazzinianamente concepito, l’aquila di una Roma privata del papa che serrava fra gli artigli un fascio simbolo della Repubblica. Tale simbolo sarebbe passato, del 1943, alla Repubblica sociale italiana che rivendicava in tal mondo un’origine mazziniana finalmente liberata e depurata dall’inquinamento monarchico e sabaudo.In effetti, l’eterogeneità e l’ambiguità del Risorgimento italiano si era espressa, fino dagli anni Venti dell’Ottocento, nell’adozione di una pluralità di simboli difficilmente compatibili tra loro. Le élites patriottiche avevano sempre mostrato di volersi riallacciare all’antichità classica sottolineando però – secondo modelli ch’erano già danteschi e petrarcheschi, ma che dal Foscolo al Leopardi erano stati reinterpretati – che l’Italia era la "figlia primogenita di Roma" e rivendicando pertanto le glorie dell’antica repubblica dei Bruti e degli Scipioni. Ci comportava una certa estraneità dalla moda neogotica che invadeva intanto l’Europa: al tempo stesso, però, il Risorgimento italiano recuperava anch’essa, come si vede nell’architettura e nell’urbanistica ottocentesca, nel nome delle libertà dei Comuni e della lotta contro lo "straniero" (ad esempio la Lega lombarda contro il Barbarossa). Gli stessi simboli più propriamente cristiani, se non cattolici, entravano in qualche modo nella panoplia risorgimentale: nel 1848, la Prima guerra d’indipendenza venne interpretata in un primo tempo – giobertianamente e nel nome di Pio IX – come "crociata": e una croce figurava come insegna sulle coccarde dei volontari e perfino al centro del tricolore verde-bianco-rosso riesumato dai tempi della Repubblica cisalpina e poi italiana del Bonaparte e rivendicato come bandiera nazionale dal Regno di Sardegna, che tuttavia l’aveva caricato dello scudo sabaudo, la cui croce d’argento in campo vermiglio aveva origine da una concessione onorifica che l’Ordine dei cavalieri di Rodi (poi di Malta) avevano accordato al conte di Savoia Amedeo VI in ricordo della difesa di Rodi da lui eroicamente condotta contro i turchi a metà Trecento. Mentre quindi il fascio littorio campeggia sovrano sui monumenti e le lapidi repubblicane, mazziniane, artigiane e operaie di tutto l’Ottocento e del primo Novecento italiani (e di fasci è decorato il monumento equestre di Garibaldi al Gianicolo), molte sono le occasioni ufficiali in cui, nel nome dell’unità tra casa Savoia e movimento garibaldino come origini dell’unità e della libertà della patria, scudo monarchico e fascio repubblicano vengono effigiati insieme. Mussolini aveva originariamente ripreso dal mazzinianesimo e dal garibaldinismo il fascio giacobino (in una forma che si vede bene nella lapide commemorativa di Felice Cavallotti posta nel palazzo comunale di Forlì, che il giovane Benito ben conosceva): ma a partire dal 1925, cioè dall’anno del consolidamento del governo fascista in regime, la forma del simbolo di partito andò mutando: l’ascia simmetrica al centro del fascio di verghe, caratteristica del giacobinismo, si andò cambiando in un’ascia asimmetrica "romana", posta lateralmente alle verghe, e l’oggetto assunse connotati "archeologici" e romani. In altri termini, l’origine giacobina veniva ripudiata e il simbolo-chiave del regime, divenuto simbolo dello Stato-partito, si ricollegava direttamente alla romanità. Questo viaggio a ritroso del patriottismo unitario italiano divenuto nazionalismo e, nella prospettiva già dei Corradini e dei Marinetti, colonialismo e imperialismo, si era tradotto esteticamente in una progressiva "romanizzazione" dell’archeologia e dell’urbanistica. La Roma capitale postrisorgimentale e umbertina aveva assunto in un primo momento uno stile eclettico ispirato al cinque-seicentismo risorgimentale e barocco, in linea con il tono prevalente della Roma dei papi: di tale scelta era stato arbitro un architetto di genio, Camillo Boito. Ma cultura decadentistica di fin de siècle ed estetica anticlericale e anticristiana dei circoli massonici dominati da personaggi come Ernesto Nathan e Augusto Reghini avevano progressivamente imposto la scelta "romana". L’Altare della Patria ne è il compendio: eretto in modo da addossarsi alla collina del Campidoglio obliterandone completamente e irreversibilmente il carattere cristiano sancito dallo splendido complesso ecclesiale e conventuale di Santa Maria in Aracoeli, l’abbagliante mostruosità di marmo e di bronzo consacrata a un re che la Chiesa aveva scomunicato e alla dea Roma s’imponeva ora al centro dell’Urbe, con la sua mole la forma della quale rimandava all’Ara di Pergamo custodita nel museo di Berlino e all’Altare della dea Fortuna della città di Palestrina, l’antica Penestre divenuta rocca dei Colonna. Il Vittoriano era programmaticamente concepito come un Antivaticano, un centro sacrale laicistico, patriottico e neopagano contrapposto a quello cattolico e papale. L’asse urbano di Roma, già incentrato sulla linea cristiana Laterano-Vaticano (dunque Esquilino-Gianicolo), si spostava ora su quella pagana Campidoglio-Aventino: il "risanamento" dell’area tra Campidoglio e Colosseo, con la sistemazione archeologica dei Fori imperiali e l’apertura della trionfale via che congiungeva piazza Venezia all’anfiteatro Flavio e ch’era la quinta scenografica delle liturgie imperiali di regime, avrebbe completato l’opera. Nel 1920, i legionari fiumani di D’Annunzio, ispirandosi a un quadro di David (il pittore ufficiale di Napoleone) ed equivocandone una scena di giuramento, avevano inventato il "saluto romano". Nel 1933 l’ex agitatore libertario e socialista divenuto il Duce (un epiteto peraltro ereditato da Garibaldi e da D’Annunzio, salutava appunto "romanamente" la statua di Giulio Cesare all’inizio dei Fori imperiali. L’eredità di Roma era pienamente recuperata: ma quella era la Roma imperiale, che con il repubblicanismo giacobino non aveva più nulla a che fare.Lo stesso non si poteva tuttavia dire per la simbolica cristiana e cattolica. Nonostante i rapporti qua e là tesi tra Chiesa e Stato, il regime aveva attuato al Conciliazione. Nel 1921, la salma del Milite ignoto aveva avuto esequie solenni – sia pur non religiose – in Santa Maria degli Angeli prima di essere riposta nel sacello ai piedi della marmorea dea Roma, al centro dell’Altare della Patria: e la lapide che sigilla il sepolcro del soldato sconosciuto simbolo di tutti i caduti della guerra 1915-1918 reca incisa una piccola croce. Col fascismo, all’interno del monumento – dove dal 1930 si erano ricavati i locali della cripta e del Museo del Risorgimento –, il sarcofago del Milite ignoto sarebbe diventato, all’interno, l’altare di una cappella nel quale, in quello stile romano-ravennate che il romagnolo Mussolini prediligeva (e che aveva scelto anche per la sua pur modesta cappella di famiglia, nel cimitero di Predappio), campeggiavano i mosaici raffiguranti i santi-militari protettori delle Forze armate. Nel 1937, per il quindicesimo anniversario della fondazione della Milizia fascista, l’ateo mangiapreti divenuto Duce del fascismo ascoltava in solenne inappuntabilità la messa celebrata sull’Altare della Patria. Il ciclo era compiuto: si concludeva l’itinerario simbolico che saldava gli inconciliabili simboli dell’antichità pagana, del giacobinismo anticristiano, del Risorgimento anticlericale, della monarchia sabauda tradizionalmente devota alla Vergine madre di Dio e scomunicata dal 1870, dell’Italietta massonica, della rivoluzione nata da un movimento repubblicano e socialista divenuto nazionalista e guidata da un ateo divenuto Uomo della Provvidenza e che aveva restituito, come fu detto, «l’Italia a Dio e Dio all’Italia». Ai fedelissimi di una "religione civica " estetizzante e almeno in apparenza priva di compromessi con il cattolicesimo, Mussolini concedeva di costruirsi frattanto a spese dello Stato un nuovo, sontuoso Altare della Patria e santuario rituale attorno al vecchio e ormai vaneggiante Vate, là presso il Garda: il Vittoriale degli italiani, dal nome tanto simile al Vittoriano, nemmeno dal quale sono tuttavia del tutto assenti le tracce del cattolicesimo, sotto la forma delle are dei martiri o tra le pieghe delle allusioni erotiche e misticheggianti del culto a san Sebastiano e a san Francesco. Cacciatelo da qualunque porta volete, ma il nome del Cristo rientra sempre, nella storia d’Italia, a tutte le finestre. Il seguito di questa storia assurda e surreale, lo conosciamo. Eppure è storia: storia nostra. Con tutte le sue contraddizioni, che non abbiamo il diritto né d’ignorare, né di cancellare.
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