sabato 25 gennaio 2014
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Da lontano si staglia come un cri­stallo di roccia, solitaria gemma la cui forma netta, precisa, lim­pida, sembra levarsi lieve sopra il profilo del monte. «Ha forma di dodecaedro rombico – spie­ga Mario Botta, il noto architet­to svizzero che ne ha firmato il progetto – e trae spunto da una particolare pietra di color ros­so, il 'granato'. La chiamano anche il 'dia­mante dei poveri' ed è caratteristica di questa vallata austriaca dello Zillertal: si trova in pic­coli elementi, delle dimensioni di pochi milli­metri con la quale l’artigianato locale compo­ne monili. Da qui il nome: la chiamano cap­pella 'granato'».
Pur nella sua geometria regolare, la cappella appare molto particolare...
«È un segno di presenza umana: l’edificio che si accosta e completa la natura. Come poteva­no essere le torri di guardia che si erigevano in passato. Questa cappella stabilisce un dialogo organico col paesaggio. Quando vi si arriva, sa­lendo dalla valle, si notano già da lontano le sfaccettature regolari rivestite in acciaio corten, dal colorito scuro, simile a quello delle rocce: ma si vedono solo due o tre lati. Vi si entra sa­lendo una scala e, quando si giunge con gli oc­chi all’altezza del pavimento, si scoprono tut­te assieme le dodici facce del dodecaedro, ri­vestite di tavole di acero chiaro disposte obli­que rispetto ai lati, così da far risaltare gli spi­goli e, attraverso questi, l’articolazione dello spazio. Le superfici esterne scure danno il sen­so del raccogliersi compatto; la luminosità in­terna invece dilata lo spazio in un respiro di chiarore: tanto quelle appaiono fredde, quan­to questa si presenta calda e accogliente. La luce si diffonde da un’apertura superiore e ba­sta fermarsi una decina di minuti per apprez­zarne lo scorrere sulle pareti a seguito del va­riare della posizione del sole».
E sulla parete vicina all’altare c’è un’incisio­ne a croce e l’immagine di un santo...
«La cappella è dedicata a Engelbert Kolland, giovane francescano che, nativo di questa diocesi (di Salisburgo) fu martirizzato a Da­masco nel 1860. La sua immagine è anch’es­sa semplice, essenziale, come tutto in questa cappella».
La forma geometrica pura è tipica del suo modo di progettare... 
«Certo, attraverso la geometria riscopro l’es­senza dell’edificare. La forma semplice e pura è immediatamente riconoscibile e apprezza­bile nella sua interezza. Mi spiego: chi guarda un cilindro, vede solo una porzione della sua superficie. Ma sa subito immaginare anche la parte non visibile di quell’oggetto, perché già lo conosce. Così avviene per tutti i solidi rego­lari, perché la persona si trova di fronte a for­me che le sono consuete, familiari. E questo è un valore importante per l’architettura, in par­ticolare per quella dei luoghi di culto. Si pensi per esempio all’abside e alla facilità con cui viene riconosciuta, intesa come un luogo che accoglie, compresa come elemento che o­rienta. Ricordo l’osservazione di Martin Hei­degger, riguardo al fatto che 'si abita' un am­biente, in quanto ci si può orientare in esso. Di contro si pensi a come ci si può sentire diso­rientati da un ambiente labirintico come quel­lo di un supermercato, o di fronte ad architet­ture stranianti, irregolari, caotiche come quel­le che presenta a volte il bailamme di linguag­gi progettuali contemporanei. Ecco che, in ta­le contesto, tanto più la forma geometrica ri­sulta importante per la progettazione di un luogo sacro, e aiuta a riscoprire gli elementi fondanti dell’architettura: il muro che separa, la porta che dà accesso, la soglia che segna il passaggio, la percezione della gravità, della lu­ce, dell’orientamento. Questi aspetti riman­dano al significato più profondo dello spazio costruito».
Lei ha realizzato molti edifici per il culto, in Italia e all’estero. Forse anche perché le for­me geometriche semplici che usa acquisi­scono il valore del simbolo?
«Più che di simbolo parlerei di segno di stabi­lità. Pur nel trascorrere del tempo e nel succe­dersi delle sensibilità culturali, le forme geo­metriche pure mantengono costante il loro si- gnificato, così come lo spazio sacro mantiene costante il valore dei loghi di cui si compone. Si pensi, ancora, al significato della soglia, che costituisce il luogo che separa – ma allo stes­so tempo unisce – il microcosmo dell’ambiente sacrale e il macrocosmo dell’universo. O al­l’importanza dell’orientamento che, nel con­testo urbano perde un poco la sua ragion d’es­sere, ma mantiene forte il suo valore teologi­co nello spazio della chiesa. Desidero sottoli­neare questo, che il sacro appartiene a tutti noi, in quanto appartiene nella sua essenza al fatto architettonico, di cui costituisce il mo­tivo primordiale. E da venti secoli lo spazio della chiesa si mantiene costante nei suoi e­lementi costitutivi, come ambiente pre­gnante nella sua essenzialità. Appartiene a una dimensione diversa da quella delle 'macchine teatrali' che inscenano ambizio­ni e affanni della commedia, o della tragedia umana di ogni giorno».
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