Leggeva i suoi
Quaderni da ragazzo. Poi, quelle pagine lo hanno accompagnato nei decenni della vita nel manicomio di Novara, dove l’eco del dolore e dei silenzi delle pazienti sembrava forse un muto coro attorno alle domande di una giovane filosofa e mistica francese. Oggi, a 84 anni, Eugenio Borgna, psichiatra e scrittore, è tornato a affrontare l’opera omnia di Simone Weil, a percorrere la sua bruciante domanda di senso, dentro a una vita nel segno di un profondo, misterioso dolore che sempre la ha seguita; o, forse, che la Weil stessa ha volontariamente attraversato.
L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil (Feltrinelli, pagine 214, euro 18,00) è la storia di questo viaggio. Figlia di una colta famiglia ebrea, Simone, nata nel 1909, appare, nelle foto da adolescente, di una bellezza angelica. Giovane insegnante di filosofia, politicamente impegnata e vicina al trotzkismo, sceglie giovanissima di andare operaia nelle fabbriche di quegli anni, dove oltre dieci ore di lavoro e ritmi massacranti opprimevano le maestranze. L’esperienza abbrutisce la Weil e la segna, quasi lasciandole sulla pelle il marchio di una sorta di schiavitù sperimentata fra le presse, nei tonfi cupi delle macchine. È un viaggio dentro la alienazione di quelli che “non contano”, ma non l’unico che la Weil intraprenderà: come spinta, scrive Borgna, da una febbrile intenzione di conoscere la condizione umana attraversata dalla sofferenza. Come una missione, che con volontà ferrea la Weil si fosse dato. D’altronde, anche interiormente la accompagna un dolore acuto, come la segreta compartecipazione mistica alla sofferenza degli altri, della moltitudine di sconosciuti che nella storia sono caduti sotto la miseria e la violenza. 'Questo contatto mi procura un male così atroce', scrive Simone. Eppure di nuovo lo andrà a cercare, il dolore in persona, sui fronti della Guerra civile spagnola. Intanto, il bel volto di adolescente si offusca, perde il suo splendore. La Weil non sembra interessarsene, tesa com’è nella sua scelta di conoscenza e compartecipazione.
Malheur, è la parola francese che Simone usa a indicare ciò che sperimenta; che può essere tradotto con 'infelicità', o 'sventura', o forse, pensiamo noi, con 'male di vivere', nella accezione della celebre poesia di Montale. Qualcosa che lo psichiatra Borgna ben conosce nelle sue pazienti cadute nel buio della depressione psicotica. Ma c’è in Simone Weil – accanto all’oscurità e quasi alla fedeltà al dolore, che intuisce come straordinaria via di conoscenza – una ostinata ansia di luce. Il suo andare a cercare la sofferenza altrui si avvicina, dice Borgna, a un simile movimento di altre straordinarie figure femminili: Etty Hillesum, pure ebrea, che, volontaria nel campo di concentramento di Westerbork, in Olanda, si ostina a voler essere un “tetto a Dio”, un angolo per Dio dentro la disperazione dei deportati. Oppure Borgna ricorda Teresa di Calcutta, per il suo appassionato amoroso cercare gli ultimi, gli “scarti” che nessuno vuole. E c’è qualcosa di intensamente femminile in questa militanza di misericordia, di cui la Weil come la Hillesum e Teresa è portatrice. «Lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca », scriveva Etty, nelle notti nel lager. E la Weil sogna di costituire un corpo di infermiere di prima linea, che assistano sul fronte francese i soldati feriti e moribondi: un punto di umanità nel cuore della bolgia, scrive, volti femminili a ricordare, a quei ragazzi, la casa. Nella intuizione della donna come naturale “mediatrice di tenerezza” nella brutalità del mondo. Eppure una figura
naturaliter cristiana come la Weil, per un lungo periodo della sua breve vita – muore a 34 anni – non è credente. Scrive un giorno del 1937, a Assisi, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli: «Per la prima volta nella mia vita qualcosa di più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio ». (Un istante simile a quello raccontato dalla Hillesum nei suoi
Diari: «Spinta a terra da qualcosa di più forte di me»). È l’inizio degli anni mistici. La Weil ammette: «Nei miei ragionamenti sulla insolubilità del problema di Dio non avevo previsto questo: la possibilità di un incontro reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio». L’incontro mistico sembra, si intuisce seguendo il cammino di Eugenio Borgna, colmare di nuovo senso quella parola,
malheur, male di vivere, nel cui segno Simone vive, e redimerla in una nostalgia di infinito che si fa nostalgia di Dio. Anzi proprio attraverso il buio della sofferenza, scrive all’amico sacerdote padre Perrin, comprende meglio «la possibilità di amare l’amore divino», e aggiunge: «Il pensiero della Passione di Cristo è penetrato in me per sempre». Come non dire cristiana, si domanda Borgna, una simile anima? Simone Weil rifiuta il battesimo, è affascinata dal Vangelo ma si sente respinta dal Catechismo del Concilio di Trento. Anche in questo viene in mente la Hillesum, che non appare mai apertamente convertita, anche se vertiginosamente condotta dalla carità dentro gli spettrali anni dell’Olocausto. Entrambe come sulla soglia della Chiesa, e profonde frequentatrici dei deserti della modernità: come angeli sulla soglia della fede, quasi messi lì, nel labirinto tragico del Novecento, a soccorrere i 'lontani', quando si avvicinano. La Weil muore in sanatorio inglese nel 1943, consumata dalla tubercolosi e dalla anoressia. Non riesce più a alimentarsi, o non vuole, quasi a partecipare la sofferenza di coloro che muoiono al fronte? Negli ultimi mesi lascia questo testamento: «Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire a amarlo. Dio attende come un mendicante che se ne sta in piedi, immobile e silenzioso, davanti a qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane. Il tempo è questa attesa. Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore». Cosa ci lascia il viaggio di Eugenio Borgna con Simone Weil? Innanzitutto la testimonianza che la parola oggi più sfuggita e censurata, “dolore”, nella sua asprezza è colma di significanza, se non addirittura chiave di mondi altrimenti inaccessibili. Poi, la ferrea certezza che il dolore che opprime l’uomo può non essere cieco, per chi accetti di traversarlo nella tensione del viandante che anela l’alba. Perchè l’ombra più oscura può essere in verità nostalgia di Dio, e il sentiero più desertico non porta al nulla, ma a colui che, fedele, mendicante, aspetta.