Bonnefoy e l’Italia: un amore. Il grande poeta, uno dei giganti del nostro tempo, ha nel nostro Paese non solo una fonte tematica e ispirante, ma una parte della sua anima. “Parte dell’anima” non nell’accezione dei poeti della domenica (ove è sinonimo dell’ancor più imbarazzante “luogo dell’anima”), ma letteralmente: i suoi saggi su Mantova, sul barocco italiano, sulla Roma seicentesca sono memorabili. Come le sue traduzioni da Leopardi, straordinarie, da Petrarca (che migliora, facendolo drammaticamente moderno). Si può dire che la mitologia di Bonnefoy abbia alcuni punti di riferimento, archetipi: il teatro di di Shakespeare, il tema della realtà, e l’Italia. Che il poeta sente naturalmente, fatalmente legata alla presenza della realtà: tutto in questo Paese, dalla lingua alla pittura, dal Quattrocento al barocco, pare un potente atto di presenza, l’essere, concreto, corporeo, che si manifesta in un forma vivente e perdurante. Ne parliamo da lustri. Ma mi accorgo di non avergli mai domandato come nacque, intendo a livello biografico, minimo, la conoscenza del nostro mondo. «Ho cominciato dalla lingua. La prima persona che ha veramente contato nella mia esistenza era corsa». Amava l’italiano, parlava volentieri la lingua corsa dei suoi nonni, nella loro casa sul mare di fronte a Capraia, e nelle intonazioni dell’isola Yves amava «appercepire la lingua italiana», che subito gli parve un luogo sul quale sostare, restare ancora: sì, definisce la lingua italiana, conosciuta magicamente in quegli anni, un luogo. La realtà: un luogo è qualcosa in cui puoi risiedere. E questo per Bonnefoy è naturale. Nella lingua risiedi, poggi, fai realtà. Un luogo misterioso, la lingua italiana, in quanto depositario «di tanti secoli d’ascolto dei segreti della vita».
Aveva già appreso, e appreso ad amare, il latino, «una lingua dell’interiorità della cose in opposizione al greco, passionalmente votato al loro magnifico apparire». È la prima volta che mi parla della sua scoperta della lingua italiana, e io scopro la ragione delle nostre affinità elettive: anche per me il latino è una lingua pulsante come un cuore, inteso anche come organo fisico, muscolo, pompa, interiorità sanguigna. Ora il Bonnefoy novantenne, rievocando la nascita di un amore per una lingua, un luogo, giunge a intuizioni straordinarie: «Mi sembrava che la lingua della Penisola, nutrita – cosa importante – di cultura etrusca, fosse ciò che mi permetteva di tuffarmi verso un secondo livello della mia vita psichica inconscia…». Il massimo poeta contemporaneo della lingua illuminista, che egli ha complicato, addensato, velato, drammatizzato come i suoi padri supremi, Villon e Baudelaire, scopre nella lingua italiana e, prosegue, nel paesaggio dell’Italia il secondo livello dell’inconscio, il segreto canoro, armonioso e inafferrabile della bellezza. E uno dei segreti della poesia stessa: di cui il mondo ha bisogno, ribadisce, perché la società umana può esistere solo attraverso una decisione originaria, costitutiva, che poi è l’essenza della poesia. Noi non concepiamo le persone come semplici immagini, ma vogliamo incontrarle nel pieno della loro presenza, al massimo della loro libertà: solo a questa condizione ci potrà essere una società viva e non un semplice formicaio. Attraverso la poesia «è il mondo reale stesso che si manifesta in tutta la sua profondità, è lui che ci viene riconsegnato». Yves Bonnefoy, nato nel 1913 a Tours, vive a Parigi. Nel 1981 è stato nominato alla cattedra di studi comparati della funzione poetica al Collège de France. Accanto all’opera poetica la produzione saggistica è tra le più importanti del Novecento. Fondamentali gli studi sulla poesia e sull’arte. Vastissima la sua opera di traduttore dall’inglese, in gran parte da Shakespeare e John Keats. Significativo della sua prospettiva il suo Dizionario delle mitologie e delle religioni. Molti i titoli di poesia pubblicati in Italia, da Movimento e immobilità di Douve a Quel che fu senza luce, raccolti con gran parte dell’opera poetica nel Meridiano pubblicato da Mondadori nel 2010, fino al recente L’ora presente (Mondadori 2014). La poesia di Bonnefoy appare e svanisce con la rapidità attimica in cui la realtà stessa della poesia è nata. Ecco il suo desiderio violento di cose, di realtà, di pieno, la sua angoscia di gnostico. Tutto appare come in uno schermo, non per tornare in volti o immagini, ma per rinascere metamorfosato in te che scrivi. Bonnefoy non scrive la poesia per la pagina, dove peraltro splende, ma per la zona aborigena di ogni poeta e lettore in cui la visione si genera. Forse, in questo senso, è il più grande poeta vivente. La sua poesia è anche il racconto della cosmica conflittualità degli elementi, che lascia a lato la sfera della psiche: Bonnefoy non indaga il mondo psicologico e sentimentale dell’uomo, ma le forze che gli corrispondono nella natura naturata e naturans, nelle energie primordiali, nelle fibre e nel il volto del mondo.