giovedì 4 aprile 2013
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Tra utopismo e realismo. Tra l’aspirazione alla pace come condizione di un civile convivere tra popoli e stati, e la necessità di difendersi con la “guerra giusta”. Norberto Bobbio (1909-2004), filosofo del diritto e della politica, ha cercato di districarsi nel groviglio di tensioni e scontri, egoismi e sopraffazioni che segnano il cammino dell’umanità, pur conscio che è l’immagine del labirinto quella che «conviene di più alla rappresentazione della storia umana», come lui stesso ha scritto. Ora Giovanni Scirocco, docente di Storia contemporanea nell’Università di Bergamo ne ha riassunto il pensiero nel volume L’intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la “guerra giusta” (Biblion Edizioni, 128 pagine, 10,00 euro): sulla base di una ricerca nell’archivio del filosofo conservato nel Centro Studi Piero Gobetti di Torino.Si può dire che Bobbio fosse un pacifista?«Non lo è mai stato per partito preso, essendo un realista, sia pure particolare, che tentava di tenere insieme Hobbes e Kant. Negli anni Cinquanta critica quello che chiama il “pacifismo astratto” del Movimento dei Partigiani della Pace, ma ritiene che si debba operare per la via del diritto e tramite gli organismi internazionali (quello che, sulle orme di Kelsen, chiama pacifismo “giuridico” o "istituzionale"). Poi la minaccia del conflitto nucleare gli impone una svolta. Nel 1961 partecipa con Aldo Capitini alla prima marcia per la pace Perugia-Assisi e subito dopo pubblica un articolo in cui affermava che, dal momento che guerra può significare catastrofe totale, non c’è più alternativa alla pace. Nell’equilibrio del terrore vedeva rivendicato il pensiero di Hobbes, secondo cui solo la reciproca paura raffrena dall’aggressione».Non sosteneva l’idea di “guerra giusta”?«Come scrive nell’introduzione al volume di Günther Anders Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, anch’esso del ’61, la condizione atomica rende impossibile pensarvi. Non si pone più un’alternativa, per esempio, tra libertà e guerra, e l’unica alternativa restante è tra vita o morte: tra essere o non essere. Tuttavia vede che, se questa logica agisce nel rapporto tra le superpotenze, permane il rischio del suo deragliamento in conflitti regionali. Per questo insiste sul coinvolgimento delle istituzioni internazionali...».Poi col crollo del Muro nell’89 e con lo smembramento dell’Urss...«Resta una sola superpotenza e il controllo delle armi atomiche si fa più difficoltoso. Sorgono le guerre asimmetriche: non ci sono più due Stati che si fronteggiano seguendo regole che in ogni caso lasciano aperta l’ipotesi di accordi... non c’è più jus in bello. Si torna alla logica medievale della guerra indiscriminata tra bande. Con l’invasione del Kuwait, Bobbio riparla di “guerra giusta”. Intendendola tale non sul piano morale, bensì del diritto internazionale. L’opposizione di molti suoi amici e allievi gli provocherà una dilacerazione, una forte sofferenza».Anche Giovanni Paolo II fu contrario a quella guerra.«Sì, ma Bobbio, che aveva con nettezza scelto l’agnosticismo, ha sempre dialogato con i movimenti cattolici di base, più che con la Chiesa istituzionale. Credo che nella circostanza della prima guerra dell’Iraq in lui abbia giocato soprattutto il ricordo dell’appeasement: l’accordo di Monaco del ’38. L’aggressione di Saddam contro il Kuawit era chiara. Più problematico fu per lui quanto accadde col dissolversi della Jugoslavia. Tentò di giustificare l’intervento in Serbia seguendo lo stesso ragionamento di Jürgen Habermas, secondo il quale la causa umanitaria era un motivo sufficiente. Si trovò molto imbarazzato di fronte all’obiezione che, allora, i motivi più diversi avrebbero potuto essere addotti per interventi armati, a partire dal problema della fame nel mondo. Alla fine si ridusse al concetto hegeliano: in ogni momento storico c’è una potenza prevalente che impone la legge».Che avrebbe detto di fronte alla primavera araba?«Uno storico non può rispondere a una domanda del genere. Tuttavia ricordo che Bobbio è sempre stato attento e aperto al dialogo con le persone. Nello studiare il suo archivio, la cosa che più mi ha colpito è vedere con quanta meticolosità rispondesse sempre a tutte le lettere che gli arrivavano. Negli ultimi anni della sua vita scriveva a mano, con grafia tremolante e trattava tutti allo stesso modo: uomini di governo o giovani studenti. E ha sempre apprezzato e sostenuto coloro che si battono per i propri diritti».
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