“Gravel” in inglese significa ghiaia. Nel mondo delle due ruote a pedali gravel è invece il nome dell’ultima tendenza quanto a tipo di bici. Una moda? Piuttosto una rivoluzione. Di nicchia, ma pur sempre rivoluzione. Perché la strada sterrata, le strade bianche, quelle col brecciolino come fondo, i percorsi off-road non estremi, i sentieri battuti nella natura che resiste all’urbanizzazione, anche vicino alle città, hanno trovato un nuovo mezzo per diventare frontiera, da esplorare pedalando. Il confine tra lo sforzo fisico e l’immaginario è sottile, ma spesso è ciò che fa la differenza tra il flop e il successo.
Dovesse affermarsi come fenomeno stabile, la tendenza gravel forse non riuscirà a fare storia come l’invenzione della mountain bike, non eguaglierà in termini di fascino anche estetico il ritorno delle bici a scatto fisso, e chissà se conquisterà lo stesso numero di seguaci delle rievocazioni storiche su due ruote. Eppure la “ghiaia” può fare molto bene al mondo della bicicletta, se oltre la moda e il marketing si riuscisse a cogliere la filosofia che rende questa svolta affascinante: la ricerca di un mezzo unico, uno per tutto, versatile e totale, come è sempre stato prima che la specializzazione nelle bici raggiungesse livelli così elevati da rischiare di erodere il senso di libertà che da sempre le caratterizza.
In cosa consiste questa rivoluzione, dunque? Tecnicamente le gravel derivano dalle bici da corsa e da ciclocross, strizzando appena l’occhio al cicloturismo. A uno sguardo inesperto sembrano bici per correre, vista la piega sportiva del manubrio e l’assenza di orpelli come portapacchi, parafanghi, ammortizzatori, carter e via dicendo – anche se qui tutto si può montare, ed è il suo bello. Nella pratica la geometria del telaio permette una posizione più eretta e meno estrema, una guida più comoda e stabile, le ruote montano pneumatici dalle misure più generose e un filo tassellati, i freni sono a disco, la solidità dell’insieme è superiore e la versatilità elevata.
Un ibrido? Niente affatto, semmai è l’esatto opposto: il mezzo originario, l’essenza primitiva, ciò da cui tutto parte. Lo spazio di manovra delle gravel non si apre a prestazioni estreme, anche se non si possono escludere, ma concede margini molto ampi per immaginare e scegliere ogni volta dove andare e come, senza l’ossessione della performance: al lavoro, al parco con i figli, a correre sull’asfalto, veloci fuori strada, leggeri nelle campagne, nei boschi e sugli sterrati, in vacanza coi bagagli appresso. Macinando strada e pensieri, on e off-road, senza soluzione di continuità.
In realtà è anni che esistono bici che permettono questo, o gravel race organizzati in ogni posto del mondo. Dalle mitiche sfide nel Midwest statunitense come la Trans Iowa o la Dirty Kanza in Kansas. Fino alle nostrane Lodi-Lecco-Lodi, la Martesana Van Vlaanderen, il Gravel road challenge nelle Langhe, o la Gravelonga, 120 km tra Padova e Venezia, il cui motto peraltro recita chiaro: «Né forte né piano, ma lontano». Ci si fermasse a questo non sarebbe però vera rivoluzione. Il segno della differenza è la prospettiva che apre l’idea di una bici non “adattata”, ma concepita e nata con l’avventura quotidiana nell’orizzonte, nel suo Dna, un margine d’azione cioè potenzialmente infinito: dall’asfalto rattoppato delle città all’Oregon Outback. Lontano dalle sempre meno sopportate automobili.
La storia è maestra. Quando a fine anni 80 sul mercato irruppero le prime mountain bike, derivazione delle bici modificate per scendere a rotta di collo dai pendii californiani, i puristi della strada non trovarono di meglio che storcere il naso e aumentare la frequenza di pedalata. Per anni i fan delle Mtb non sono nemmeno stati considerati veri ciclisti. Ma poiché non ci sono muri capaci di resistere alla forza della libertà, quando preme ed è autentica, ecco che la porta spalancata dalla rivoluzione mountain ha finito per cambiare per sempre il mondo del ciclismo. Oggi una bici venduta ogni tre ha le ruote tassellate per i sentieri, più della metà dei mezzi acquistati guarda al fuoristrada o al trekking.
Gli amanti della bici sono aumentati, l’innovazione ha trovano nuovi confini, e avanzando la specializzazione ha preso il sopravvento. A sfogliare un catalogo di bici si trova di tutto, e forse troppo, rischiando una surplace eterna prima di decidere: ci sono bici per correre in strada, per correre in strada sulle lunghe distanze, per correre in strada sulle brevi distanze, per allenarsi, per andare in pista, per scendere dalle montagne, per salire sulle montagne, per salire e scendere dalle montagne, per correre nei boschi, per saltare sulla terra, per saltare sull’asfalto, per andare sulla sabbia e sulla neve, per fare avanti e indietro tra casa e bar, per appenderla sopra il divano, per viaggiare, per viaggiare veloci, per viaggiare comodi, per andare al lavoro piano, per andarci veloci, e via dicendo.
È il bello, ma anche la deriva e il limite della ricerca del mezzo migliore per ogni cosa. La stessa tendenza che a un certo punto ha decretato la fine delle “scarpe da tennis”, quelle che andavano bene per tutto, o degli “scarponcini” da montagna, che portavano ovunque. Ma i tempi cambiano. Così dopo diversi tentativi di ibridazione, ecco le gravel, messaggere di un desiderio di autenticità, testimoni della semplicità perduta in quel gesto unico che è spostarsi pedalando. L’avventura a portata di tutti. C’è chi giura che il ritorno allo sterrato, lo stesso fondo sui cui di fatto gareggiavano anche Girardengo, Binda o Coppi, possa guidare a riscoprire il piacere della monogamia nella relazione con il prodotto ciclistico, una sola bici, come il ritorno a una relazione esclusiva dopo la fase delle tentazioni e dei tentativi. Il terreno può averlo preparato la stagione del ritorno alle “fisse”, le biciclette senza freni né ruota libera, con l’esaltazione maniacale del rapporto singolo. Anche qui, un movimento lento, una ricerca di essenzialità capace di riavvicinare intere generazioni alla pratica della manutenzione della bici, preparando il terreno al boom dei corsi di ciclomeccanica.
Ora la “situazione” è gravel, come recita la comunità che si ritrova sui social. I mountain bikers si avvicinano alla strada e gli stradisti ai sentieri. Difficile dire se durerà, e come. Ma nell’era delle bici elettriche, dei motorini celati nel telaio, degli amatori dopati per arrivare primi allo sprint della domenica, compare un mezzo che fa tutto bene, forse niente al massimo, ma che riesce a far pedalare ovunque, o quasi. Diamogli strada. Meglio: ghiaia.