mercoledì 8 aprile 2015
​Il riordino dei beni culturali varato dal ministro Franceschini investe in modo significativo anche il patrimonio librario.
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A New York c’è il Museum Mile, la sgambata di un chilometro e mezzo che unisce tra loro – tanto per avere un’idea – il Guggenheim e il Metropolitan. A Firenze, invece, il giro delle biblioteche non richiede più di quattrocento metri. Si parte da piazza San Lorenzo, dove ha sede la Laurenziana, si procede per via Ginori passando davanti alla Riccardiana, e si arriva in via Cavour, alla Marucelliana. Tre edifici, tre collezioni che sintetizzano mezzo millennio di storia, non solo fiorentina. «Se proprio si voleva fare sistema si poteva partire da qui, no?», obietta Franca Arduini, riminese di nascita ma ormai toscana d’adozione. Bibliotecaria di provata esperienza, ha diretto sia la Laurenziana sia la Marucelliana. L’una e l’altra rischiano ora di subire la sorte delle “sorellastre di Cenerentola”, secondo la sferzante definizione che la stessa Arduini ha affidato a un articolo pubblicato sulla rivista “Biblioteche Oggi”.  La questione, di primo acchito, potrebbe apparire tecnica se non addirittura burocratica, ma così non è. Si tratta di questo: nell’ambito della riforma dei beni culturali annunciata nel luglio scorso dal ministro Dario Franceschini, i dirigenti assegnati al settore bibliotecario sono meno di una decina. Oltre ai dirigenti bibliotecari chiamati a operare presso il MiBact (il ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, appunto), solo sei sono assegnati a strutture presenti sul territorio. Le biblioteche pubbliche statali, però, sono 36, cifra che sale a 47 se si considerano anche le raccolte annesse ai monumenti nazionali (le abbazie di Praglia e di Santa Giustina nel Padovano, per esempio). Finora le biblioteche di maggior rilevanza erano rette da un dirigente. Adesso, a parte poche eccezioni, il direttore sarà un funzionario, che a sua volta farà riferimento a un’altra dirigenza. Che può essere la direzione generale delle Biblioteche e degli Istituti culturali attiva presso il ministero, oppure la direzione di uno dei 20 “supermusei” istituiti dalla riforma (andrà così a Milano, con la Braidense di fatto inglobata nella Pinacoteca di Brera), oppure ancora una delle biblioteche “dirigenziali” superstiti. Sei in tutto, dicevamo, e cioè l’Universitaria di Genova, la Marciana di Venezia, le Nazionali di Torino e Napoli, le Nazionali centrali di Roma e Firenze. La situazione del capoluogo toscano è particolarmente complessa, perché per contiguità territoriale verrebbero a confluire sotto la dirigenza della Nazionale centrale non solo le tre biblioteche storiche fiorentine già ricordate, ma anche la Statale di Lucca e l’Universitaria di Pisa. «Da un lato c’è la difficoltà, che rischia di diventare impossibilità, nel gestire un patrimonio di queste proporzioni – insiste Franca Arduini –, dall’altra sta la sostanziale debolezza dei funzionari preposti alle varie strutture. Non è un problema di rango, ma di autorità e formazione: un dirigente può intrattenere con il territorio rapporti più incisivi e di più ampio respiro. E guardi che non mi riferisco solo al reperimento delle risorse finanziarie, ma anche e soprattutto alla capacità di gestirle con la necessaria autonomia. Penso a mostre, convegni, iniziative culturali, programmi di ricerca. Tutto quello che rende la biblioteca un luogo vivo e non un magazzino nel quale si conservano i libri».  Le criticità cominciano proprio dalla Nazionale centrale, come osserva la storica fiorentina Gianna Del Bono, oggi docente di Biblioteconomia all’università romana di Tor Vergata: «Mi pare azzardato ridurre una realtà di questo tipo a un ruolo di presidio territoriale – dice –. Quella di Firenze è, a tutti gli effetti, la più antica biblioteca centrale italiana, istituita all’indomani dell’Unità sulla base del nucleo secentesco di Antonio Magliabechi e di quello settecentesco della Palatina. Il rapporto con la Nazionale centrale di Roma, purtroppo, non è mai stato affrontato né tanto meno risolto. La riforma, in sostanza, non fa altro che ribadire il doppione, così come conferma uno status quo di stampo ottocentesco. Sulla carta si conserva il sistema delle biblioteche pubbliche statali, che potrebbe essere invece ripensato e snellito, mentre all’atto pratico queste stesse biblioteche vengono private della loro autonomia. L’impressione è che manchi un criterio unificante, a meno che non ci si voglia accontentare del mero dato quantitativo rappresentato dal numero di utenti. Ma il parametro su cui valutare una biblioteca non può essere questo, né ci si può illudere che il processo di digitalizzazione sostituisca interamente lo studio diretto dei testi».  Proviamo a quantificare, sia pure in modo sommario. Presso la Nazionale centrale – che si affaccia sull’Arno, a due passi da Santa Croce – si conservano 25mila manoscritti e poco meno di sei milioni di libri a stampa, tra cui 3.700 incunaboli e 32mila cinquecentine (sono le definizioni riservate alle opere impresse rispettivamente sul finire del XV e durante il XVI secolo). Qui si trovano, tra gli altri, molti dei libri appartenuti a Galileo Galilei. Quanto alla Laurenziana (fatto salvo il prestigio dell’edificio, inaugurato nel 1571 su progetto di Michelangelo), agli oltre tremila “plutei”, ossia i codici manoscritti greci e latini dell la collezione rinascimentale di casa Medici, vanno aggiunte le acquisizioni successive, tra cui spiccano i frammenti di papiro e di altre forme di scrittura risalenti fino al III secolo avanti Cristo. Si va, insomma, dall’antico testimone dell’Inno ad Afrodite di Saffo vergato su ostrakon (una scheggia di ceramica adoperata come supporto) al celebre “Virgilio Laurenziano”, databile al V secolo, ma ci si può spingere fino alla Vita di Vittorio Alfieri, di cui la biblioteca custodisce tanto il brogliaccio originario quanto la copia allestita per la stampa. Molto ampio anche l’arco temporale coperto dalla Riccardiana, che vanta un patrimonio di oltre novemila manoscritti tra volumi e carte sciolte, per non parlare dei 61mila libri a stampa. Si trovano qui autografi di Boccaccio e di autori più recenti, come Renato Fucini. La Marucelliana, infine, è stata inaugurata nel 1752, ha una dotazione di manoscritti e volumi antichi analoga a quella della Riccardiana, dotazione poi integrata dalle molte rarità delle cosiddetta “letteratura grigia”, difficilmente reperibili altrove (copioni teatrali, libretti d’opera, fumetti). Questo è il posto giusto per studiare il metodo adoperato da Ugo Foscolo per la traduzione del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne e per trovarsi faccia a faccia con Il più lungo giorno, ovvero la stesura originaria – a torto ritenuta perduta – dei Canti Orfici di Dino Campana, assegnata alla Marucelliana grazie alla tenacia dei bibliotecari, primo fra tutti Roberto Maini.  L’attuale direttore, Alessandro Sardelli, ha operato per molti anni proprio nel settore della gestione delle risorse e condivide l’obiettivo della riduzione degli sprechi. «Così com’è, però, la riforma gioca al ribasso – sostiene –, il risparmio si concentra sulla riduzione delle posizioni dirigenziali e il resto del sistema rimane immutato. Il rischio da scongiurare, a mio avviso, è quello di un declassamento delle Nazionali centrali di Roma e Firenze, che nella prospettiva finora indicata verrebbero investite di un compito da biblioteca cittadina. Si verrebbe a creare una situazione che non ha riscontri nel panorama internazionale e che non risolverebbe il rebus del doppione, sul quale invece una riforma meglio articolata potrebbe intervenire in modo efficace».  
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