Quelli che… in una sera grigia di una domenica fine anni ’70 vennero folgorati dal video. Una visione: la faccia simpatica di un fratellone scaltro che parlava di calcio come un Voltaire, invitando l’ironia a sprizzare e l’intelligenza a sorridere. Avvolta in una nuvola di fumo di sigarette, stava lì in primo piano la sagoma solida e scanzonata di Beppe Viola che da stravaccato, nel salotto comodo della Domenica Sportiva, zoommando di ampex, ciondolone nel loden scuro, saliva su un tram di quelli belli e sferraglianti di una Milano non ancora svenduta e bevuta fino all’orlo.Vigilia di un derby meneghino (lontano anni luce da quello odierno degli infidi pseudogiornalisti-ultrà e degli scienziati del pallone), il Beppe passava all’attacco. Intervista esclusiva, mai vista prima su questi schermi, all’abatino Rivera: trattamento come il portiere, sì, ma del condominio di via Lomellina. Il cortile delle prime partite in
scarp de tenis con il fratellastro Enzo, Jannacci. Un servizio spiazzante (aperto da: «Nessuno si occupa di quelli che prendono il tram», Jannacci dixit) quanto un rigore del Golden Boy: televisione avanti di vent’anni. Saggi originali, replicati fino all’ultima domenica che Viola rimase su questa terra, perché il più artistico e irregolare dei narratori del calcio in tv non poteva che andarsene, per sempre, nel giorno consacrato al dio pallone.Calcio e spettacolo che si ritrovano anche negli scritti sparsi (in libri ormai introvabili come L’incompiuter ), molto corsari. Pigiando tasti di brutto su una Olivetti compose per
Il Giorno, per il mitico
Linus su convocazione di Oreste del Buono, per l’
Uomo Vogue e tutta quell’editoria di serie B che a lui però, padre di quattro figlie, serviva a tirare su la «rebonza» (il malloppo), a fare «markettificio», per non andare a «babbo morto» (a credito) alla fine del mese. Partendo dalla strada e ascoltando la gente di quartiere, aveva rielaborato una grammatica da Romanzo Popolare. Già come
Quelli che…, il film con Tognazzi e la Muti l’aveva scritto il Beppe, a quattro mani con Jannacci. E a Monicelli in regia, oltre alla sceneggiatura, gli era piaciuta anche la bella faccia di Viola, volto giusto per il ruolo del bigliettaio del cinema di periferia. Ci avrebbe riprovato, «lupus in sciambola», proprio con Tognazzi in
Cattivi pensieri. «Successo di critica, pubblico zero… Transit», come avrebbe detto scippando l’idiomatica al tizio curioso di piazza Adigrat. Viola è stato un impareggiabile registratore di tic e vezzi umani e aveva anticipato, con classe, la dissacrazione del mondo pallonaro, poi ereditata dai nipotini della Gialappa’s e dai cuginetti di Fabio Fazio.Annotava divertito gli svarioni dei mutandieri della domenica, come quel capitano di una nazionale che a un party gli offrono un bicchiere di champagne e lui risponde serioso: «No grazie, sono analcolico». Se Gianni Brera è stato un Gadda prestato allo sport, Beppe Viola era un Bianciardi olimpico che nei suoi pezzi (televisivi e giornalistici), mischiando storia, musica, costume, Pcultura alta e bassa, miscelava ferocismi letterari alla Longanesi, umorismo alla Marchesi e colpi di tacco alla Flaiano. Battutista insuperabile certo, anche se la battuta che più invidiava era quella del tennista prediletto: «Sarei disposto ad accettare di avere 37 e 2 di febbre per tutta la vita, in cambio della seconda palla del servizio di Mc Enroe». Con uno così in redazione era facile, era bello lavorare, scrive in
Ho dato l’anima, il suo figlioccio Giorgio Terruzzi. E il Beppe ci metteva tutta l’anima nel mestiere.Prima del derby e dell’ippodromo di San Siro, popolato di «clanda» (bookmaker non ufficiale) alla Oscar e scommettitori incalliti alla Ricky Albertosi, veniva il Derby, il laboratorio teatrale dell’allegra brigata degli artisti e dei soci della ditta fisiognomica “Ufficio Facce” («Quello ha la faccia da milanista! Accettasi scommesse») che aveva la sua succursale al bar Gattullo, in Porta Ludovica. Genius loci, luogo di degustazioni enogastronomiche con il panino-muratore del «Signor Domenico» che è «un’opera d’arte italiana, ma costa ottantamila lire», commentava smozziccando e brindando alla bella vita con i suoi fratelli d’arte: gli eterni «saraffi» (complici) Cochi e Renato, Jannacci, Boldi, Villaggio e il giovane Abatantuono, il figlio della guardarobiera del Derby. Zingarate notturne, schitarrando e buttando giù un’infinità di abbozzi di, gag, programmi e canzoni con l’Enzo. Notti infinite a tirar all’alba in una Milano che era ancora bella. «Quando c’era Beppe, Milano era una città viva», ha detto Gianni Mura.Il Beppe che ammoniva lo snobismo intellettuale e insegnava agli scribi di sport: si può parlare di politica e di sociale, anche se alla domenica devi raccontare di pali o di rigori non dati. Ed è per questo che nella sua stanza in Rai, dove era stato assunto nel 1961: «Rispondendo negativamente alla domanda: lei è comunista?», entrava il mondo intero. Giocatori di biliardo, amici in bolletta, pittori, cantautori e attori come Jean-Louis Trintignant, che di notte girava un film a Bergamo e di giorno faceva girare il formaggio e il vino nella sua stanza. «Chi vuol lavorare faccia pure, altrimenti ci sarebbe da degustare della roba francese, pur non sapendo la lingua». Quelli come Beppe Viola, forse non nascono più, o se nascono adesso corrono il rischio di non essere compresi. Per il Beppe infatti «molti finti complimenti, nessuna promozione, soldi ancora meno», ha scritto Giorgio Porrà, ricordando di quella tragicomica “Lettera al direttore” della «madre, anzi matrigna Rai». Ma nonostante tutto il Beppe resisteva fedele al motto melodico «O vivere o ridere» e senza mai alzare bandiera bianca proclamava: «Tengo duro per battere, modestamente, il record di mancata carriera». Con una battuta seppelliva i nemici e scacciava i dolori, divertendosi a scavalcare continuamente la barriera inesauribile del luogo comune, eretta da «Quelli che... quando perde l’Inter dicono che in fondo è una partita di calcio e poi vanno a casa e picchiano i figli».Il Beppe era nato per ammazzare il tempo con mille trovate al secondo, ma alla fine è stato il tempo a prendersi gioco di lui, in quella domenica del 17 ottobre 1982, dopo un Inter-Napoli, tre mesi dopo il “suo” Mundial di Spagna. Aveva solo 43 anni e tanto ancora da dire. «È morto Giuseppe Pepinou Viola, era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli», scrisse un mai così commosso Gianni Brera. Se ne è andato in una sera d’autunno, spirava un «vento romantico» sulla sua Milano e una pioggerellina dolce si mischiava alle lacrime salate e inconsolabili dell’Ufficio Facce.