venerdì 10 maggio 2013
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«Dalla cima di questa montagna abbiamo cercato, invano, di vedere la costa dell’Italia», scriveva nell’800 Lamarmora dopo aver raggiunto la sommità del Bruncu Spina, ritenuta la punta più elevata del gruppo del Gennargentu con i suoi 1829 metri. (In realtà il primato spetta alla Punta Lamarmora, 1834 metri). Resta il fatto che l’esploratore e geologo piemontese da quella vetta riuscì a vedere il mare «da tre lati diversi dell’isola», a est, a ovest e a sud. Avrebbe visto anche, a nord, le Bocche di Bonifacio e la Corsica non ci fosse stato l’ostacolo trasversale della catena del Limbara, l’altra grande montagna di Sardegna sopra Tempio. Gennargentu, dunque. Porta del vento, significa la parola. Originano da questi picchi di un ambiente naturale di tipo appenninico, se non addirittura alpino, le grandi correnti d’aria che investono il territorio sardo. A eccezione del maestrale. Quello scende dal golfo del Leone e dalla finestra di Carcassona, percorre il Mediterraneo occidentale e schiaffeggia con forza selvaggia le coste isolane e dura tre, sei, a volte nove giorni. Gennargentu, epicentro della Barbagia aspra, bella e selvaggia, a sua volta epicentro della Sardegna. Anni addietro la parola Barbagia evocava una realtà dalla quale girare al largo, fatta di povertà estrema e malavita, di residuati di feudalesimo, di ovili e di servi pastore condannati a una esistenza disumana, di balentes (bulli di paese inclini alla violenza e alla leppa, il coltello), di sequestri di persona e di epiche latitanze tra le forre del Supramonte, di vendette di sapore tribale, di rifiuto dell’autorità costituita, la quale faceva poco o nulla per farsi accettare. Un nome come Orgosolo, paese che con i suoi murales racconta oggi la storia dell’Italia e del mondo (si cominciò nel 1975 su ispirazione del professor Francesco Del Casino, senese arrivato chissà come a insegnare educazione artistica ai ragazzini delle medie da sottrarre al destino obbligato della balentìa), rimanda ad alcune delle più drammatiche pagine della passata cronaca nera sarda. Nulla di nuovo in realtà. Le antiche popolazioni della zona, di stirpe nuragica, avevano dato filo da torcere prima ai cartaginesi e poi ai romani, i quali, scrive Diodoro Siculo, «per nessuna forza militare che impiegassero, poterono giungere a soggiogarle». Barbagia deriva da Barbaria, ed è tutto dire. L’isolamento aveva fatto il resto. «I fenomeni della criminalità tipici della Sardegna – affermava Ignazio Pirastu agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso nella relazione per una commissione parlamentare di inchiesta – non si estendono a tutta l’isola ma trovano le loro fonti nelle Barbagie». Si tratta di una criminalità «le cui origini profonde debbono essere ricercate nell’arcaico mondo pastorale che la produce e nella contraddizione e conflitto di civiltà con la società che lo circonda». Cose di ieri. Della relazione di Pirastu resta di attualità il termine Barbagie, secondo la tradizionale suddivisione di queste terre, tra Nuoro e la neonata provincia dell’Ogliastra: Barbagia Ollolai, Mandrolisai, Barbagia Belvì, Barbagia Seùlo. È la parte più impervia, inaccessibile e per questo più affascinante di un’isola già di per sé di problematico e costoso accesso. Siamo sotto l’ombrello imponente del Gennargentu, massiccio ricco di boschi e acque, che permette perfino di praticare lo sci. A Fonni, il paese più alto dell’isola, sul versante nord del Gennargentu, lo sci è di casa. Questo per dire quanto l’offerta turistica della Sardegna possa essere diversificata rispetto ai soliti pacchetti traghetto-spiaggia-villaggio tutto compreso. Chi sa di Fonni sul continente? Della Barbagia, o Barbagie che dir si voglia, si potrebbero scrivere libri su libri, ma nessun testo può restituire appieno la realtà di un mondo affascinante anche per la distanza dagli stereotipi, ora che il pastore raggiunge l’ovile non a dorso di asino ma a bordo del fuoristrada, e il gsm lo tiene in costante contatto con i familiari in paese. È cambiata la Barbagia, come è cambiata e sta cambiando (la crisi economica lascerà però strascichi dolorosi) tutta la Sardegna. Eppure questo angolo del Nuorese difende con fierezza la sua cultura e il suo modo di essere: lungi dal chiudere le porte alla modernità e alle prospettive del futuro, il barbaricino ha coscienza che l’eredità del passato è ricchezza che va saldamente difesa e proiettata nel presente, e in questo senso aveva ragione Guido Piovene a parlare della Barbagia come di una terra «rimasta fuori del tempo». Così nessuno ha intenzione di ripudiare le tradizioni, tanto meno quelle del folklore. Al paese di Mamoiada togliete tutto, ma non toccate le sfilate processionali dei mamuthones, le maschere locali dalle sembianze grottesche, evocatrici di antichi rituali propiziatori. Come nessuno ripudierà mai la cucina d’elezione di questa terra: pane carasau, porceddu, agnello, salumi, malloreddus, zuppa coata, pecorino (su casu), sehadas e via dicendo. Né il proprio vino, quasi sempre Cannonau. Né un buon filu ’e ferru da centellinare tra amici, la ruvida grappa sarda che proprio in Barbagia, a Gavoi, trova una delle migliori espressioni. In Barbagia c’è poi una piccola capitale, quella del torrone sardo. È il paese di Tonara. Torrone che non ha uguali, provare per credere. La Barbagia non trascura infine di proteggere e valorizzare il Gennargentu, il luogo più selvaggio del Mediterraneo occidentale. Valeva la pena di istituire il parco nazionale, quasi 80 mila ettari. Si è dovuto attendere fino al 1998, e ancora non tutti i problemi sono superati, ma il muflone, il cinghiale (su sirbone), il gatto selvatico, il ghiro, il cervo, il daino, il gipeto, l’aquila reale sono al sicuro. Il turista colto, intelligente, sa che le Barbagie richiedono tempo prima di svelarsi per quello che sono: almeno tre giorni, se possibile cinque. Il mordi e fuggi non è ammesso. Non si va di corsa di forra in forra.
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