Non sono stati tanti, in oltre sessant’anni, gli artisti capaci di vincere sia “Sanremo giovani” che la versione principale del Festival: e se tale faccenda ha timbrato il passaporto per un successo mondiale a Eros Ramazzotti, a qualcuno oggi forse farà specie che nell’elenco figuri anche il nome di Aleandro Civai in arte Baldi, cantautore toscano classe 1959 che si impose nel ’92 fra i giovani (
Non amarmi) e due anni dopo fra i “big” (
Passerà). Eppure, malgrado il suo ultimo disco (
Italian love song) risalga al 2010 e l’ultimo di inediti (
Liberamente tratto, peraltro di buon livello) addirittura al 2007, Baldi ora non è un ex cantante. È invece un valido autore, dalla bella e potente voce, che del mondo della canzone nostrana ha conosciuto opportunità e meschinità in misura purtroppo simile: come racconta energico ma sereno dal suo Chianti. All’inizio, quando nei pianobar lo scoprì Giancarlo Bigazzi e decise di lanciarlo come aveva fatto con Massimo Ranieri, Raf, Marco Masini, Marcella Bella e soprattutto Umberto Tozzi, Baldi infilò infatti un fuoco di fila di trionfi: 1986, secondo a “Sanremo giovani”; 1987, vince il “Disco per l’estate”; 1989, terzo fra i giovani in Riviera; 1992, oltre a “Sanremo giovani” sbanca il “Cantagiro” e ancora ”Disco per l’estate”; 1994, si impone al Teatro Ariston davanti a gente come Laura Pausini, Enzo Jannacci, Ivan Graziani, Franco Califano. Dopo, però, non c’è stato il nulla. Baldi ha scritto un libro sulla sua condizione di non vedente dalla nascita; in album sottovalutati ha scritto di don Milani e altre tematiche non scontate (dopo aver già trattato temi sociali, come la guerra dei Balcani, nei fortunati Cd degli esordi); ha fatto jazz e continua con i tour. Ma la discografia era declinante: e lui, pur se notevole rappresentante della generazione emersa a metà degli anni Novanta, a oggi l’ultima a proporre buona e nuova musica italiana (Giorgia, Nek, Gianluca Grignani, Elisa, la stessa Pausini…), è finito ai margini. Anche se poi, in verità, dal 2000
Non amarmi in spagnolo, cantata da Jennifer Lopez, ha venduto otto milioni di dischi nel mondo; e dal 2004
Passerà ne ha venduti tre con
Il divo. Eppure, stante il boom di Andrea Bocelli, contemporaneo al suo, alle orecchie di Baldi fecero arrivare un feroce, definitivo «un cieco basta, nella musica». Avete letto bene: e poi veniteci a dire che la crisi dell’odierna cultura musicale non dipende pure dal tracollo etico di chi da anni, purtroppo per noi, la gestisce.
Baldi, partiamo dal principio. Quanto contò per lei un produttore come Bigazzi? «Il 50 per cento: il resto lo deve mettere l’artista. Però mi ha insegnato come si scrive, e soprattutto che bisogna saper gestire le emozioni che si trasmettono».
Come si gestiscono? Ci sono dei doveri dell’artista? «A Sanremo Renato Zero mi disse: “Ricordati, tanti contano su di noi; non ti hanno votato perché sei bravo ma perché si fidano”. La cosa principale è essere credibili, dunque: per alcuni diventi quasi un dio e questo è rischiosissimo. Non devi mai prenderti troppo sul serio, devi sapere che il successo come viene se ne va. Ma di doveri non parlerei: credo sia decisivo soprattutto essere aderente a quanto scrivi e canti, ovviamente però assumendotene ogni responsabilità».
Non amarmi è stato un tormentone. Da cui fuggire? «No, anzi: scriverne non è da tutti. Specie se penso che dopo non ho avuto molte altre opportunità, molti “sì” divennero “no” per ragioni incomprensibili mentre all’estero mi vivevano da autore di belle canzoni… Però
Non amarmi era una storia vera: uno come me non sa mai se una donna ama lui o la sua immagine. La frase chiave del testo è “Non amarmi per il gusto di qualcosa di diverso”, anche se pochi capirono».
E taluni già dicevano che Bocelli come cieco bastava… «Me l’hanno riferito in tanti. Però la gente non l’ha mai pensato: erano persone dietro le quinte, che mai me lo dissero in faccia. E anche a Bocelli capitò; di entrambi dicevano pure che un cieco porta sfortuna, che mette tristezza… Farisei, li chiamava Bigazzi: si mostrassero, con le loro opinioni di cartapesta…».
Si è mai sentito usato per il suo handicap? «Quello no. Però sa, un artista è merce e gli impresari dei concerti mercanti di schiavi, in fondo. Che noi dobbiamo avere per poter lavorare».
Oggi pensa che valga di più, questo concetto di una industria del disco che schiavizza senza rispetto?«Il mercato si è ridotto e io, per dire, altre chances proprio non ne ho mai avute di tornare al grande pubblico. E anche se la parte creativa del mio lavoro è rimasta splendida, via via ho dovuto farlo sempre con meno sostegno. Ormai Sanremo si disinteressa delle canzoni e in generale si cercano spettacolo, risate, virtuosismo vocale. Noi eravamo più timidi della Amoroso o di Emma, forse cantavamo peggio ma avevamo personalità. I talent creano stampini, invece: però anima e ca- risma non si costruiscono certo facendoli».
Tanto che oggi canzoni come Passerà, all’epoca viste come “leggere”, sono ben più forti delle odierne hit…«Sa cosa c’è, nel mio caso? Che la sana contaminazione con Bigazzi mi ha reso più capace di parlare a tanti e mi ha reso meno “impegnato”. Quando lo conobbi mi interessavo di politica, volevo parlare di temi sociali e l’ho fatto pure spesso; però andai a Sanremo come cantante, con un’immagine più passiva di quella di un cantautore. A parte l’orecchiabilità, se canto
Passerà chitarra e voce tutto cambia: si sente, che non è canzonetta».
Lei fra Volami nel cuore e Domenica in ha fatto tv di recente: è una strada alternativa, come paiono dire anche le carriere di Enrico Ruggeri o Luca Barbarossa? «Per me erano cose divertenti, ma se sei artista resti tale. Che senso ha l’apparire per il gusto? Preferisco aspettare canzoni giuste dietro le quinte».
Per una musica vissuta anche come terapia? «Come sfogo, direi. Come terapia credo più al contatto umano: che avviene anche grazie alla musica, certo, ma la musica vera, quella che cerchi e scegli di esprimere. Non credo alla musica fatta per forza: è bellezza, sono emozioni da condividere».