E anche questa volta Peppuccio Tornatore resterà a guardare la serata di gala comodamente da casa. B aarìa non convince gli americani e non sfonda il muro delle candidature straniere per la serata degli Oscar: dalla lista iniziale di 65 film selezionati in giro per il mondo ne sono stati scelti solo 9. E tra questi non c’è l’ultima fatica del regista siciliano, l’opera omnia della sua vita, quella su cui lui e l’Italia cinematografica avevano puntato tanto, forse troppo. Dato che una dopo l’altra, dalla Mostra del cinema di Venezia, dove era uscito sconfitto tra gli sconfitti, B aarìa ha raccolto molti applausi ma nulla di più. I soliti campanelli d’allarme erano arrivati nemmeno due giorni fa quando dalla platea dei Golden Globe ad alzarsi per ricevere il premio del miglior film straniero era stato Michael Haneke per il Nastro Bianco e non Tornatore. Però una cosa è quel riconoscimento, consegnato dalla stampa straniera negli Stati Uniti, un’altra è prendere la sonora batosta direttamente da Hollywood e da tutto il gotha del cinema americano. Uno schiaffo di indifferenza dritto dritto in faccia al nostro cinema, che ha in Tornatore uno dei massimi e più apprezzati rappresentanti negli States. Costato 25 milioni di euro, accompagnato da un’aura di unità nazionale (e politica) come raramente si vede di questi tempi, promosso dalla Medusa in ogni dove (solo Avatar da noi ha fatto di più quanto a invadenza pubblicitaria), B aarìa sembrava avere tutte le carte in regola per riuscire là dove non era riuscito nessuno negli ultimi anni. Nemmeno, forse, Gomorra, con cui Baarìa condivide da ieri il destino dell’occasione mancata. Kolossal intimista e assieme spettacolare, con quella dose di emozione che rende il cinema «bigger than life» e che tanto piace agli americani, era il film della vita di Tornatore, il suo amarcord dalla terra del vento, dalla polvere dei suoi ricordi d’infanzia. Ma non è bastato. Eppure, molti, quasi tutti, a partire dai critici, avevano visto nella storia di Peppino, pastore e comunista, mescolata ai grandi eventi del secolo breve italiano, una sorta di continuazione ideale di quel Nuovo Cinema Paradiso che inaspettatamente venti anni fa lanciò il nome di Tornatore nell’empireo dei cineasti. Allora l’Academy Awards lo premiò e acclamò come una nuova promessa. Adesso era il tempo delle certezze e il riconoscimento della maturità: e la statuetta degli Oscar in questi casi è quella firma in calce capace di licenziare un classico per gli anni a venire. «Nella storia degli Oscar la gioia si mescola talvolta alla delusione», ha detto a caldo il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro. Delusione che Tornatore non nasconde, anche perché nei suoi passaggi in Canada e negli Stati Uniti, Baarìa aveva commosso platee di spettatori. Ma stavolta i selezionatori hanno guardato a storie politicamente e socialmente più esplicite e già premiatissime in altri festival. Stiamo parlando del solito Nastro bianco di Michael Haneke, fresco di Golden Globe e che, dopo la Palma d’Oro a Cannes, si prenota per la vittoria il 7 marzo. Ma anche Il canto di Paloma della peruviana Claudia Llosa, trionfatrice a Berlino, e Un prophète, vincitore del Gran Premio della giuria sempre a Cannes. Gli altri sono: El secreto del Sus Ojos (Argentina), Samson and Dalilah (Australia), The world is big and Salvation Lurks around the Corner (Bulgaria), Un prophète (Francia), A jami (Israele), Kelin (Kazakhstan), Winter in Wartime (Olanda). Quasi tutti provenienti da Europa e Sud America. Si nota l’altra grande assenza, Pedro Almodòvar e il suo Gli abbracci spezzati. Il regista Giuseppe Tornatore sul set del film «Baarìa», escluso ieri dalla corsa all’Oscar