Sono più di quarant’anni che Charles Aznavour confessa di essere un istrione a cui solo la scena «dà la giusta dimensione». E l’altra sera al Teatro Regio di Parma, nella première del tour che (ri)porta la voce de
La Bohème pure a Firenze, Milano, Roma, Catanzaro e Bari, questa sua eccezionalità è affiorata in maniera svettante tra le pieghe di uno spettacolo melanconico e teatrale, in cui monsieur Shahnour Vaghinagh Aznavourian (come si chiama all’anagrafe) è tornato ad affrontare quel repertorio italiano che trascurava da tanto, troppo, tempo. Dal 1983, anno del suo ultimo tour peninsulare, l’interprete di
She (Lei) era tornato solo nel ’96, per un unico show a Campione d’Italia. Ricordi dell’altro secolo che questa tournée intende spazzare via con cento minuti di spettacolo in cui Aznavour prova a riannodare i fili con un Paese dalla memoria corta che, dopo avergli dato molto negli anni Sessanta e Settanta, si è velocemente dimenticato di lui, se è vero che la recente biografia
À voix basse non ha trovato nemmeno un editore disposto a stamparla in Italia. Eppure teatri pieni, nonostante il costo dei biglietti, in bilico tra i 70 e oltre 200 euro. Il che sta a significare che un pubblico pronto a lasciarsi irretire dai suoi agrodolci afflati di vita c’è, eccome. Un ulteriore segnale in tal senso arriverà dal mercato del disco, a fine novembre, quando verrà dato alle stampe
Charles Aznavour and the Clayton Hamilton Jazz Orchestra, l’album inciso ad Hollywood con icone del vocalismo afro-americano quali Rachelle Ferrell e Dianne Reeves, per tornare a stimolare quella vena jazz vellicata dallo chansonnier già in passato assieme a comprimari di prestigio come Richard Galliano, Michel Petrucciani o la stessa Reeves. Anche se a Parma (tra i vip in sala, Lucio Dalla e Vinicio Capossela) Aznavour ha scelto di rilanciare sulla sua immagine più popolare e amata, cantando in francese, inglese, francese e italiano, affiancato da un gruppo pop di sette elementi oltre a due coriste, tra cui la figlia quarantenne Katia (con cui condivide il sentimento di
Ja voyage). Sulle venticinque canzoni in repertorio sono una decina quelle in italiano, comprese cose irrinunciabili come
L’anfitrione, Ieri sì, Ed io tra di voi, Com’è triste Venezia seppur condizionate dalla tensione riverberata sull’interpretazione dall’instabilità linguistica. Dopo essersi dimenticato una frase di
Buon anniversario, Aznavour ci ha pure scherzato sopra, mostrando alcuni testi trascritti sulle mani, perché «qualche suggerimento ci vuole sempre». Molto applaudite, comunque,
Morir d’amore, Non ti scorderò mai e brani in francese quali
Mon ami mon Judas o una
Les deux guitares con i suoni caucasici della sua Armenia. Quell’Armenia di cui è ambasciatore da febbraio scorso presso la Confederazione Elvetica e di cui è rappresentante permanente presso l’Onu di Ginevra. Dopo 85 anni spesi tra palco, set e iniziative umanitarie, una bella soddisfazione.