Siamo così assuefatti alle mostre che parlano di impressionismo, avanguardie, movimenti artistici a cavallo tra Otto e Novecento, mostre costruite spesso con parametri prettamente turistico-commerciali, a frequenze ormai sempre più brevi, che l’ennesima rassegna sull’avanguardia russa, per quanto tempestata di belle opere, rischia di cadere vittima di quella abitudine al già visto finendo anch’essa nel novero delle mostre da Grand Tour, pratica che sta prendendo il posto, nella vita di molti, che fu un tempo del pellegrinaggio religioso. Un’iperbole, naturalmente, ma neppure del tutto campata per aria se già una decina di anni fa scrittori e critici come Tom Wolfe e Charles Jencks mettevano in guardia dalla nuova religione descrivendone i riti e i luoghi, ovvero le liturgie e le cattedrali, che calamitavano le masse affette da mostrite acuta. Vedi, uno per tutti, l’effetto Guggenheim di Bilbao. Non per moralismo dico questo, ma proprio per un certo fastidio provocato dalla banalizzazione di quello che dovrebbe essere l’esperienza estetica; se vogliamo, è la stessa differenza che passa tra un viaggiatore e un turista, il primo si reca nei posti per conoscere e stabilire con la gente che vi abita una empatia profonda, che diventa anche condivisione della loro vita: qui, viaggiare, porta paradossalmente a fermarsi; l’altro, è un consumatore, più o meno avido, più o meno buongustaio, della strana e inafferrabile aura che ammanta il capolavoro (e che vi sia una inflazione di capolavori è più che un richiamo per le allodole): il turista delle mostre non si ferma mai, conoscere, per lui, vuol dire divorare ciò che vede e ancora e ancora. Per attirare le allodole serve anzitutto un titolo da abbocco. Così, oggi, anche i meglio intenzionati, quelli che intendono affrontare con un taglio nuovo o diverso un tema o un ambito che ricadrebbero più facilmente nella tipologia «del consumo», tendono ad autocensurarsi per non correre il rischio di comunicare al visitatore un messaggio difficile, dunque per evitare un flop alle biglietterie.Doveva intitolarsi «Fuoco e Ghiaccio» la mostra allestita a Palazzo Strozzi sull’avanguardia russa e le sue radici nell’Estremo Oriente. La premessa dei curatori, nel catalogo Skira, s’intitola infatti così. Era un titolo molto russo, perché a un russo non suonerebbe affatto strano, vi sentirebbe il timbro della poesia di Andrej Belyj, dove il fuoco richiama l’origine, l’ardore della vita, e il suo simbolismo si sposa misticamente col nome dell’autore, che in italiano suona più o meno come Andrea il Bianco.Il ghiaccio e l’orizzonte della Siberia, la notte di luce del Nord estremo e il permafrost studiato dal “Leonardo russo” prima di morire nel gulag, Pavel Florenskij, e il senso spirituale del nulla che si distilla dall’essere. Così si arriva al bianco su bianco di Malevich la cui pittura voleva, in qualche caso, l’“angolo bello”, come le icone domestiche, sotto le quali sono sempre accese le candele. Ma per il turista medio, quello che permette a una mostra ben fatta di ottenere il risultato che ripaga i costi, un titolo come quello, secondo gli organizzatori italiani, avrebbe suonato come un piacere masochistico. Così, accogliendo i suggerimenti degli uomini del marketing, la mostra allude esplicitamente alla Siberia e all’Oriente, il che, devo essere sincero, sotto il profilo pubblicitario non mi pare una garanzia più solida: chi oggi, in Italia, si sente emotivamente coinvolto dalla Siberia? Bisogna dire che se si cita Solzenitsjn, Salamov o Florenskij c’è il rischio che le folle del Gran Tour sappiano a malapena chi sono.Ma, sia come sia, questa rassegna fiorentina va vista, perché ancor prima e ancor più di ciò che espone, ha il merito di rompere lo schema consueto che vuole a tutti i costi far dipendere l’avanguardia russa dalle ricerche e dalle innovazioni occidentali. Prima Dostoevskij e Solov’ëv, poi Bulgakov e Florenskij (ma anche altri, per esempio i simbolisti come Belyj e Ivanov), ebbero un rapporto dialettico e a tratti ostile verso la cultura occidentale, giudicata come eccessivamente materialista e sensualista (vedi la celebre disputa sulla Madonna Sistina di Raffaello); mentre la vena mistica, esoterica, spiritualista (kandinskijana, per esempio, ma anche maleviciana), ovvero quella popolare e in senso lato “tribale” che ritroviamo nella pittura della Goncharova e di Larionov, o quella più sofisticata di Filonov e Lentulov, guardano verso l’estremo Oriente, per un’analogia che rientra nelle risonanze panteistiche e cosmogoniche che lì si dipanano, tanto nel buddhismo quanto in un certo sciamanismo, così che oggi scopriamo che sull’avanguardia russa agiscono, come nutrimenti profondi, il pensiero e l’immaginario mitico dell’India, della Cina, del Tibet, fino al Giappone, di cui la congiunzione con la moda delle cineserie e del japonisme è un aspetto superficiale (così anche l’orientalismo più classico che si può trovare in pittori come Léon Bakst, Benois, Karazin, Choros-Gurkin, dove il richiamo all’Estremo Oriente è atmosferico più che strutturale).Si direbbe che nell’avanguardia russa queste radici profonde si rovescino in una sorta di rizoma. Vediamo ciò che è consustanziale a un dettato etnostorico preciso, oltre il crinale degli Urali che un tempo venivano indicati come cortina dell’Europa a Oriente. Oltre quel limite il mistico travasa in sciamano, la maschera surroga il volto: qui Florenskij ha scritto pagine fondamentali, evocando la distinzione tra ritratto e larva: ma la maschera rituale di etnia Koriaki in Kamchatka e la testa di Malevich alludono piuttosto all’idolo e quindi a qualcosa che aggira il riscontro di natura, sebbene poi nella foresta abitino quegli spiriti silvani che, dice Florenskij, rendono questo luogo quadridimensionale, nel segno della durata di Bergson, che è un fatto più interno e dilatato nella coscienza di quanto non possa essere lo spazio-tempo della fisica moderna a cui, per esempio, il cubismo si trova assimilato. Ma il cubismo, secondo Goncharova, nasce a Est, dal legame con l’idolo e il suo polimorfismo espresso in sede rituale. Una mostra, dunque, che apre nuovi filoni di ricerca e invita a non dare per scontata una “dipendenza-continuità” fra cultura russa moderna e Occidente. Lo stesso Florenskij si sentirebbe limitato, e si ribellerebbe, se potesse, a certe interpretazioni attuali della sua teologia costruite per omologarlo e renderlo accomodante verso il cristianesimo occidentale.
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