Sui muri delle università francesi occupate dagli studenti, i giovani hanno scritto varie frasi. Una di esse colpisce molto Olivier Clément: «Né maestro, né Dio. Dio, sono io». Il professore, anche come docente di un grande e tumultuoso liceo parigino vicino alla Sorbona, è coinvolto nel clima e nei problemi di quel periodo. Il ’68 lo interroga e lui stesso si pone in atteggiamento di ascolto; ma non lo entusiasma, anzi resta su una posizione di riserva e di distanza. Al tempo stesso nota come i problemi e le manifestazioni dei giovani siano qualcosa che va al di là dell’accidentale, ma esprimano un cambiamento profondo. Infatti il ’68 è stata l’ultima rivoluzione europea che ha avuto conseguenze antropologiche importanti, con l’emersione di nuovi profili esistenziali e collettivi e con la fine di altri tradizionali. Tra maggio e giugno 1968 Clément si incontra con il pastore Jean Bosc e con padre Le Guillou: c’è l’esigenza di riflettere in modo ecumenico su quel che sta avvenendo. Ne nasce un piccolo e denso libro con i contributi dei tre teologi, la cui introduzione è dovuta essenzialmente a Clément:
Evangile et Révolution, in cui il professore sviluppa la sua lettura del ’68 come un movimento "dionisiaco", che non può non interrogare i cristiani. Quando va a Istanbul per dialogare con il patriarca Atenagora, il professore ha dentro di sé le domande di quella rivoluzione culturale che, negando ogni tradizione e autorità, intendeva fare
tabula rasa della storia, tra cui quella cristiana. Nell’anfiteatro della Sorbona si leggeva questa frase: «Sapete che esistono ancora i cristiani?». O in una sala dell’Università di Nanterre, dove il movimento aveva fatto sentire la sua forza, era scritto: «Il sacro, ecco il nemico». Il viaggio che Clément compie dalla Francia del ’68 all’antica Costantinopoli, immutabile nel tempo e immersa nel sacro, è come un ritorno indietro al vecchio, all’incontro con l’uomo della tradizione, con il testimone di un mondo sacro. Il professore porta dentro di sé le domande dei suoi ragazzi e conserva nella memoria le immagini delle manifestazioni sessantottine. Il movimento sarebbe finito, ma tante sue acquisizioni e tante sue svolte sarebbero rimaste. La rivoluzione del ’68 era il portato di molte spinte convergenti, tra cui quelle di un mondo consumista di massa che aveva perso il senso della sua missione e del suo destino. Il testimone del ’68 e il testimone della tradizione si incontrano e parlano. Sono due uomini diversi, ma molto originali. Ne emerge una riflessione su come vivere la fede della tradizione cristiana nel mondo moderno e postmoderno. Clément vede all’orizzonte il rischio della politicizzazione del ’68 in senso marxista o anarchico: il dramma di queste concezioni è – afferma – «immaginare che il male si riduca solo al male sociale». Il professore non ha incontrato i giovani solo a Parigi. In quell’agosto 1968, tanti giovani "contestatori" si riversano a Istanbul per un festival della pace, vietato all’ultimo momento dalle autorità turche. Atenagora medita pensoso sulla condizione dei giovani di cui gli parla il professore: «Li abbiamo abbandonati. Come li abbiamo abbandonati! Allora si ribellano contro di noi, non vogliono più imparar niente da noi. Respingono un passato che neppure conoscono. Ma niente paura. Le loro esigenze sono salubri, anche se non le sanno esprimere. Questa gioventù ci pone duramente di fronte alle nostre responsabilità». Per Clément la loro passione per la libertà è oscura: sembrano alla ricerca di Dio, ma lo rifiutano. «Perché – continua il patriarca – si tratta del Dio dei sistemi teologici e non di quello dell’esperienza spirituale». Il vecchio di Istanbul sostiene che la Chiesa non deve auspicare o rifiutare la rivoluzione. La Chiesa non è intimamente conservatrice e pessimista sull’uomo e sulla società. Crede con speranza che l’uomo e la società possono essere cambiati: indica un’altra via, più radicale e profonda, quella della trasfigurazione. In questo senso, nella conversazione tra Atenagora e Clément, ci sono le indicazioni di una strada che porta ben lontano da quella contrapposizione che, dagli anni Sessanta, lacera e polarizza il cattolicesimo, quella tra progressisti e tradizionalisti. Il professore osserva come sia tempo di «uscire dall’opposizione tra progressismo e integrismo, tra una volontà di "servire il mondo" che finisce per squalificare la preghiera, la vita profonda, il senso della resurrezione e della santità, e una difesa del mistero, dell’interiorità, troppo spesso gravata di paura e di disprezzo». Questa è la vita che il vecchio della tradizione propone al professore di Parigi, alle domande del suo mondo.