Per scrivere
La collina (traduzione di Shira Katz, Giuntina, pagine 532, euro 19,50) Assaf Gavron ha frequentato per un paio d’anni gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania. «All’inizio non è stato facile anche perché, vede, non ho esattamente l’aspetto dell’ebreo ortodosso», ammette, e non si capisce se si riferisca al volto glabro o alla t-shirt che indossa con disinvoltura. «Ma ho avuto una buona guida - aggiunge -. Uno scrittore mio amico, Ori Elon, appartiene a una famiglia di coloni molto nota e mi ha fatto da tramite con questa realtà verso la quale c’è molta diffidenza e che, a sua volta, guarda con molta diffidenza al mondo esterno». Nato nel 1968 e considerato, con Etgar Keret, uno degli autori più interessanti della letteratura israeliana nella generazione successiva a quella di maestri e patriarchi come Amos Oz e David Grossman, oggi alle 16.30 Gavron dialogherà con Corrado Augias al Festivaletteratura di Mantova.
La collina non è il libro di un ammiratore degli insediamenti, così come
La mia storia, la tua storia (edito nel 2009 da Mondadori) non simpatizzava con il terrorismo palestinese. «Nei miei romanzi - spiega Gavron - cerco sempre di assumere il punto di vista di chi è molto diverso da me, da chi potrebbe essere addirittura mio nemico. È un’occasione per andare oltre gli stereotipi, nel tentativo di ritrovare la nostra comune umanità».
Anche l’insediamento descritto nel libro ospita persone molto diverse tra loro…«Sono gli insediamenti, in primo luogo, a essere diversi l’uno dall’altro. In alcuni non sono neppure riuscito a parlare con i coloni, altrove ho trovato un clima quasi moderato. E poi, sì, c’è la varietà delle vicende personali. Per molti restano determinanti le ragioni ideologiche, ma ci sono anche famiglie attratte dalla possibilità di una sistemazione più conveniente sul piano economico, o individui che cercano qualcosa di simile alle vecchie comuni hippie. L’insediamento che ho immaginato, Maalé Chermesh C, non esiste, ma nel libro queste tipologie umane sono tutte rappresentate. Resto contrario agli insediamenti, ma di sicuro conoscere queste persone ha ampliato il mio sguardo sulla realtà».
Nella trama gioca un ruolo rilevante anche il muro che separa Israele dai territori palestinesi. Che impressione le fa sentir parlare di muri anche nell’Europa di oggi?«In linea di principio, i muri non mi piacciono. Li si innalza nella speranza o, meglio, nell’illusione di mettersi al riparo e si finisce per esserne intrappolati, come in un ghetto. In Israele, oltre al muro di protezione verso la Palestina, si inizia a parlare di misure di controllo più severe al confine con il Libano e la Giordania, sempre con il pretesto della sicurezza. Ma la diminuzione degli attentati terroristici su suolo israeliano è dovuto solo in parte alla barriera costituita dal muro. Molto più importante è stata, per esempio, la collaborazione tra le forze di polizia delle nazioni coinvolte. Ecco, su questo vorrei essere chiaro: la mia ostilità nei confronti dei muri non deriva dal pregiudizio che non esista un vero pericolo. Al contrario, il pericolo c’è, ma il popolo di Israele dovrebbe aver imparato, dopo millenni di storia, a diffidare dei muri. Dei quali, prima o poi, si diventa prigionieri».
Sì, ma l’Europa?«A differenza di Israele, l’Europa è una comunità che raduna popoli, lingue e tradizioni differenti. Ed è proprio nello scambio continuo fra queste diversità, è proprio nel dialogo tra le culture che risiede la forza dell’Europa. In questa fase Israele sta chiudendo le porte ai profughi in arrivo dal Sinai, mentre l’Unione europea sta elaborando, sia pure con fatica, una strategia di accoglienza. In passato, però, non è stato così. Penso alla fine degli anni Settanta, quando il governo conservatore di Menachem Likud attuò una politica di grande apertura nei confronti dei profughi in fuga dal Vietnam. Più che con gli schieramenti politici, decisioni di questo tipo hanno a che vedere con il sentimento di umanità».
Un po’ come succede a Roni e Gabi, i protagonisti della "Collina", no?«Sono due fratelli che si scambiano di continuo i ruoli. Il primo è il tipico bravo ragazzo che a un certo punto non regge alla pressione e crolla, il secondo è lo scapestrato che nasconde dentro di sé un’estrema dolcezza ma anche una rabbia pronta a deflagrare. Nessuno dei due è completamente buono, ciascuno dei due fa qualcosa di inaspettato. Per me rappresentano i due volti complementari di Israele, e cioè l’atteggiamento laico e quello religioso».
Lei da che parte sta?«Sono un laico, ma nutro grande rispetto per chi ha fede. Ho cercato di mostrarlo anche nel romanzo: quando Gabi arriva al punto più basso della sua parabola, nel momento in cui tutto sembra perduto, viene avvicinato da un gruppo religioso, che torna a dargli fiducia. Personalmente non frequento la sinagoga, ma questo non mi impedisce di riconoscere il calore che quella comunità può esprimere. Certo, vivo in una parte del mondo dove gli estremisti di entrambi gli schieramenti piegano la religione a strumento di conflitto. Eppure penso che la fede possa essere un modo per accogliere l’altro, per compiere insieme un percorso di perdono e redenzione».