Questo è un libro che avrà poco esito». Ne sapeva di greco e di latino il dotto professor Francesco Trevisan, ma de
La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene non aveva capito nulla. All’amico Pellegrino Artusi che gli aveva mostrato il manoscritto del suo ricettario gastronomico non lasciò scampo: il libro sarebbe stato un fiasco solenne, meglio rinunciare. Neppure il tipografo fiorentino Salvadore Landi volle saperne, sicché l’Artusi, che all’epoca aveva già 72 anni ma non una fama che avrebbe potuto far volare le vendite, il suo manuale lo pubblicò accollandosi le spese. Era il 1891. Mille copie stampate «a proprio rischio e pericolo», come lui stesso racconta e vendute per corrispondenza.L’impresa non ottiene granché successo ma è solo questione di tempo. Dopo l’inizio stentato e scoraggiante, il ricettario inizia a far breccia nel cuore dei lettori. Di anno in anno le edizioni si susseguono, fino al 1911, anno della morte dell’Artusi, quando le edizioni sono già quindici e le copie decine di migliaia. 1911, appunto, cento anni fa: un anniversario che cade il 30 marzo - pochi giorni dopo quello dei 150 anni dell’Unità d’Italia - occasione d’obbligo per rendere omaggio all’autore di quella che Piero Camporesi definì la bibbia domestica dell’età Umbertina, il libro che svolse «il civilissimo compito di unire e amalgamare, in cucina e poi a livello di inconscio collettivo (…) l’eterogenea accozzaglia delle genti che solo formalmente si chiamavano italiane». L’Italia era stata fatta, e in quel dover fare gli italiani l’Artusi, diventato il libro di cucina per antonomasia, offriva a un popolo appena unito un menù, una terminologia e una cultura alimentare comune. Uomo di lettere, critico, scrittore, era un autodidatta Pellegrino Artusi, figlio di commercianti, venditore lui stesso in giro per fiere e mercati ma con casa e bottega a Forlimpopoli, il paese che nel 1851 la famiglia decide di lasciare dopo la drammatica aggressione subita dalla banda di Stefano Pelloni, il famigerato Passatore. Firenze è la nuova città di adozione. Qui, al 25 di piazza D’Azeglio, dopo gli anni dei viaggi da mercante di stoffe e bachi tra Livorno, Trieste, Bologna, Roma e Napoli, il severo scapolone Artusi si ritira dedicandosi a tempo pieno agli studi e ai mai sopiti interessi gastronomici. Qui, nasce
La Scienza in cucina, che mette a frutto montagne di osservazioni, di ricette appuntate, consigliate e confidate dai personaggi più diversi in anni di soste a tavola tra case di amici e conoscenti, osterie e trattorie. Mentre in cucina circolano i due gatti Bianchino e Sibillone, cui curiosamente viene dedicata la prima edizione del libro, ai fornelli provano e riprovano la serva e il cuoco, gli instancabili Marietta Sabatini e Francesco Ruffilli; Artusi certo non spadella, corregge, rivede le dosi, riscrive i procedimenti, integra i suggerimenti, spiega e commenta con riflessioni personali. Una novità rispetto ai manuali di gastronomia di tradizione italofrancese dove erano gli chef in prima persona a dettare le regole della cucina. Si parte dai brodi e dalle minestre, si attraversano i principii (gli antipasti), le salse e le uova, i ripieni, i fritti, gli umidi e passando per erbaggi e legumi si approda a pesci arrosti, pasticceria, sciroppi, conserve, gelati e tanto altro. Tutto condito da ricordi, aneddoti e riflessioni, tutto espresso in una lingua discorsiva, istruttiva e signorilmente confidenziale, tale da non creare soggezioni di sorta. Nella singolarità del manuale però c’è anche altro: ogni edizione incorpora ricette nuove. Dal 1981 al 1911 si passa dalle prime 475 alle finali 790; ogni anno ci sono integrazioni, aggiustamenti e rifiniture di quanto il pubblico, coinvolto in un’opera collettiva che sente mai definitiva, invia per posta. In cucina tutti hanno diritto di voce, tutti sanno fare, basta «che si sappia tener un mestolo in mano». Per Artusi meglio diffidare dei libroni complicati e troppo eruditi, molto di più valgono il saper fare tramandato a voce o i quaderni di casa passati di madre in figlia, con i segretucci familiari per prender per la gola i mariti, nutrire gli ospiti con una tavola garbata e gustosa. Colpisce quanto patrimonio domestico, quante ricette della buona borghesia, in quel momento rappresentino la materia, da intrecciare con il sapere popolare contadino, cui dare dignità di cultura. Pellegrino non risparmia riferimenti, citazioni e ringraziamenti: dal panettone che piaceva alla Marietta alla «rivendugliola di Romagna» interrogata sul migliaccio di farina dolce, ovvero il castagnaccio, al pudding Cesarino consigliato da una giovane e piuttosto bella signora, dai saltimbocca gustati alla trattoria Le Venete di Roma al riso alla cacciatora raccontato dall’ostessa della Polesella… Sempre si tratta di un cibo semplice e sano, di preparazioni in cui si raccomanda la qualità delle materie prime, la loro stagionalità. «La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere», spiega nella prefazione. «Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino – sostiene – non credo sia necessario, per riuscire, di nascere con la cazzeruola in capo; basta la passione, molta attenzione e l’avvezzarci preciso. La cucina raccolta da Artusi non ha pretese di perfezione – lui stesso si definisce un dilettante – racchiude invece una grande intuizione: rappresentare una cornice unitaria ai saperi gastronomici regionali, anche se in gran parte si tratta di ricette emiliano-romagnole e toscane. Un nucleo attorno a cui si aggregano altri piatti locali sperimentati in Piemonte, in Liguria, a Milano, a Roma e a Napoli, molti identificati con la propria provenienza geografica: i cappelletti all’uso di Romagna, i tortellini e gli strichetti alla bolognese, il risotto alla milanese, gli anolini alla parmigiana, i maccheroni alla napoletana, le pappardelle all’aretina, le scaloppine alla livornese… Con la sua lingua toscana corretta, da purista, Artusi avverte: «Nella mia cucina non si fa questione di nomi e non do importanza ai titoli ampollosi»; dove può traduce ma con criterio: ecco il rosbiffe, il cuscussù, la sua balsamella versione italica della
béchamel francese, la fondue diventata cacimperio. Con ironia mantiene certa nomenclatura, ma dove può smitizza l’autorità delle parole straniere. Le patate alla sauté – spiega – altro non sono che le patate rosolate nel burro, ma le quenelles, il presnitz o il
gateau à la noisette però restano tali, senza che l’intento patriottico del lessico unitario venga meno. «Dopo l’Unità delle patria – spiega Artusi a proposito del caciucco – mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e che molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti». E questo è il grande merito di Artusi, sottolineato da Alberto Capatti, massimo esperto artusiano, curatore della nuova edizione Bur de
La scienza in cucina: aver insegnato agli italiani «una cucina all’altezza delle loro speranza, una lingua per designare i cibi e un gusto per giudicarli». Aver dato ai lettori di ogni parte d’Italia «uno strumento per l’appetito e per la memoria» e aver regalato agli italiani «il sogno di una felicità domestica che si ritrova ogni giorno attraverso la condivisione di una tavola apparecchiata».