«I ricordi non sono un peso, sono fame di passato». Artyom Manvelyan è un fisico armeno stretto nella disciplina sovietica. Il legame con la sua terra martoriata rimane però indissolubile e l’unico modo per onorarla è tenerne vivo il ricordo, non dimenticare, appunto, il passato. Fece impressione, nel 1966, questo protagonista forte e gentile irrompendo sugli schermi del Festival di Cannes. Il regista armeno Frunze Dovlatyan nel suo dimenticato Hello, It’s me sposava in pieno, infatti, quelle parole, quel desiderio, quel dovere morale e civile. I cittadini dell’Armenia sovietica non potevano fare altrimenti. Il comunismo aveva cancellato la loro storia, così come l’Impero ottomano aveva tentato di cancellarne l’esistenza, cinquant’anni prima. Ricorre quest’anno il centenario del genocidio armeno e giustamente nella sezione “Cinema di cento anni fa” il Festival del Cinema ritrovato di Bologna – dal 27 giugno al 4 luglio – apre uno squarcio su quel capitolo sconvolgente, proponendo film e sequenze rarissime, tra ritrovamenti inaspettati e nuovi restauri.
Sono immagini di esodi, di povertà, immagini di bambini, donne e uomini in cerca di un rifugio. Un mosaico che la Cineteca di Bologna cerca di ricostruire – in assenza di documenti visivi diretti del massacro – attraverso un lavoro di ricerca che va dal 1915 alla fine degli anni Settanta. Impresa difficilissima. «Perché il mondo ha parlato a bassa voce del genocidio armeno – puntualizza la prima storica del cinema di quel Paese, Siranush Galstyan – e il cinema internazionale ha generalmente rispettato quel silenzio. Pochi film trattano di questa tragedia immane e per molti versi irrappresentabile». «È il motivo per cui dovevamo commemorare questo evento – precisa la studiosa svizzera Mariann Lewinsky che da dodici anni cura per il Festival bolognese questa preziosa sezione – concomitante allo scoppio della Prima guerra mondiale. Ci sono immagini di natura molto diversa: dai film muti del primissimo cinema armeno ad alcuni lungometraggi del periodo sovietico. Importantissimi sono i documentari girati tra il 1911 e il 1923. È stato difficile identificarli. È accaduto per
Ani, città dalle mille chiese, che abbiamo ritrovato nel fondo del padre gesuita Joye a Basilea, oggi a Londra, impressionante per le immagini delle rovine di quella leggendaria città medievale, antica capitale del Reame di Armenia, che dura solo cinque minuti. Fa parte di quella serie girata da Giovanni Vitrotti, primo direttore della fotografia alla Società Anonima Ambrosiana. Si era spinto fin all’interno della regione caucasica per girare piccoli documentari, dedicando molta attenzione all’arte, agli usi e ai costumi degli armeni. Ci rimane solo quel titolo, purtroppo». Altre fugaci immagini: quella di Kevork V, che nel 1911 diventa katholikòs e patriarca di tutti gli armeni, oppure quella di una festa ebraica a Koutchi, nel 1914. Poi, irrompe la Grande Guerra. «I quattro minuti di
Le front turc mostrano soldati russi e prigionieri turchi – racconta la curatrice – mentre in
Réfugies Arméniens riconosciamo il console americano Oscar S. Heizer, che fu testimone delle deportazioni ed espropriazioni del 1915 a Trebisonda». Dopo la Prima guerra mondiale c’è un momento in cui l’America vuole un mandato per stabilire rapporti economici, praticamente occupando l’Armenia. La storia andrà poi in altra direzione, con l’arrivo dei bolscevichi. Il Paese sprofonderà nell’oblio. Rispetto ad altri genocidi, di cui abbiamo immagini spietate e dolorose, quello degli armeni non è documentato direttamente. «Nessuno è mai riuscito a filmare le esecuzioni di massa e le deportazioni nel deserto siriaco di anziani, donne e bambini – sottolinea Lewinsky –. Le immagini che più si avvicinano sono le fotografie che il soldato, medico e poeta tedesco Armin Wegner scatto vicino a dei ez-Zor, uno dei punti d’arrivo delle marce della morte. Quelle che ho trovato sono solo quelle di sopravvissuti, girate dall’Armata francese e oggi custodite nel loro archivio».Questo documento, una vera scoperta, sarà proiettato per la prima volta a Bologna, dopo il restauro digitale. Girato da Jean Prache nel 1918, mostra un campo di rifugiati armeni a Port Said, in Egitto. Si tratta di 4.200 abitanti di sei villaggi che furono tratti in salvo nel 1912 dalle navi alleate, dopo aver resistito quasi due mesi all’assedio turco di Mussa Dagh. Dietro quei volti, come sempre, l’eco tragico della guerra e di territori devastati. E il silenzio sulle atrocità compiute. La mancanza di filmati diretti ha però delle ragioni storiche, non solo politiche: «Siamo nel 1915 e il cinema ha soltanto vent’anni. Inoltre, i cinegiornali, nati in Francia nel 1909 con la Pathé e la Gaumont, producono e diffondono, per propaganda e patriottismo, soltanto immagini girate nei teatri di guerra, dove si trovano i pochi operatori. I viaggi sono compromessi, l’industria francese del film crolla. L’Ar-menia è lontanissima e i turchi trattano la questione come un affare interno». A Bologna, come un omaggio, si potranno anche vedere il primo film armeno,
Namus, realizzato nel giugno del 1926 da Amo Bek-Nazarov, che descrive, insieme al dramma di due innamorati, la vita quotidiana di una città di provincia del distretto di Shamakhi sul finire dell’800; e due film prodotti nel periodo sovietico,
Kikos del 1931 e
Kurdy-Ezidy del 1933; infine,
Nahapet, girato da Guernikh Malyan nel 1977, prima epica lettura cinematografica della tragedia armena tratta dal romanzo di Hrachya Kochar su un superstite del genocidio. Ma i superstiti più impressionanti sono quelli, veri, stipati su un battello, in fuga dall’orrore. «Quattro minuti ritrovati nella Libreria del Congresso a Washington:
Armenia, culla dell’umanità. Un documento eccezionale. Per me una immagine archetipica: non sappiamo nemmeno quando è stata girata. Ma quella nave zeppa di rifugiati è come se fosse eterna. Come le tante che solcano oggi, drammaticamente, i nostri mari».