Il numero reale dei cosiddetti "armeni nascosti", o criptoarmeni, è uno dei segreti più gelosamente conservati dalla Turchia, un Paese che del segreto di Stato ha fatto un pilastro irrinunciabile. Basti ricordare, per fare un solo esempio, che per moltissimi anni è stato praticamente impossibile per gli studiosi consultare i registri di stato civile. Questi, come anche il catasto delle proprietà edilizie, erano appannaggio delle autorità e preclusi agli studiosi stranieri. Ma quali "informazioni sensibili" vi sono contenute, che le autorità non vogliono condividere? Solo in questi ultimi anni il velo si è un po’ alzato. In un libro del 2011, "Confiscation and Destruction. The Young Turk Seizure of the Armenian Property", gli studiosi turchi Ugur Umit Ungor e Mehmet Polatel hanno potuto tracciare, con dati precisi, un quadro complessivo dell’enorme passaggio di mano di proprietà edilizie, campagne, manifatture e ricchezze che seguì al genocidio del 1915. Essi hanno constatato che la distruzione dei documenti degli anni fra il 1913 (presa del potere da parte dei Giovani Turchi) e il 1950 è stata immensa (e sembra essere andata di pari passo con la distruzione fisica dei monumenti armeni e il cambiamento dei nomi di villaggi e città in tutta l’Anatolia dell’Est). In questo quadro di annichilimento di un’intera civiltà, sprofondarono anche la cultura delle relazioni quotidiane, il linguaggio, la religione. Nel suo libro "Con te sorride il mio cuore" (tradotto in italiano per le Edizioni Lavoro), il giornalista e scrittore turco Kemal Yalcin non parla di economia, ma di persone: e tuttavia raggiunge lo stesso risultato. Egli vive in Germania. Là comincia a capire che un grande mistero aleggia sul suo Paese, qualcosa che dà disagio e vaghi sensi di colpa, di cui nessuno vuole parlare. Un buco nero che inghiotte il passato. È la questione armena. Quanti vivono in Turchia che furono convertiti a forza? Dove finirono le ragazze rapite, i bambini schiavizzati? Yalcin allora si mette in gioco, si mette in cammino. Il suo viaggio attraverso il Paese gli apre prospettive agghiaccianti. Innumerevoli episodi, che gli vengono raccontati dalla viva voce dei testimoni, appena decidono di fidarsi di lui, rivelano allo sbigottito pellegrino che, per quanti sforzi facciano, per quanto si dimostrino fedeli musulmani e turchi rispettabili, quelli che hanno la tara ereditaria di avere sangue armeno nelle vene sono in pratica schedati, e saranno sempre trattati come cittadini di seconda categoria: non vengono ammessi nell’amministrazione statale, non possono far carriera nell’esercito, né essere assunti all’università. E perfino nei giochi, i loro bambini vengono spesso ancora chiamati infedeli. Eppure sono tanti, come il lavoro di Fethiye Cetin dimostra. Oggi, è lei il capo del gruppo di avvocati che rappresenta la famiglia nel processo infinito per l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink. Mi ha raccontato, quando è venuta in Italia e abbiamo presentato insieme il suo libro "Heranush, mia nonna" (Alet, 2011), che dopo che lei è uscita allo scoperto, centinaia di persone hanno cominciato a scriverle e a parlare delle loro origini. Non se ne vergognano più, vogliono sapere. Fondano associazioni, come quella degli armeni del Dersim, qualche mese fa. E il sindaco di Diyarbekir, città-simbolo di efferate stragi nel 1915, ha contribuito al restauro della grande chiesa della città e vuole ripristinarne l’antica vocazione di crocevia di popolazioni: sicché possiamo sperare che finalmente (il convegno di Istanbul di cui ha parlato ieri l’articolo di Andrea Galli su "Avvenire" ne è la prova) qualcosa si muova anche in Turchia…