martedì 11 ottobre 2016
Arendt nazista? L'ultima banalità
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Si tratta di un sillogismo puro, ineccepibile, con le due premesse e la conseguenza finale. Heidegger era nazista, Hannah Arendt si appropria del lessico di Heidegger, dunque Hannah Arendt stessa è nazista. Peccato, come ben sanno gli studenti di liceo, che la correttezza formale di un sillogismo non comporti la verità del contenuto. Pare invece scordarselo l’inossidabile Emmanuel Faye che, dopo essersi a lungo trattenuto su Heidegger mentore filosofico del nazismo, decide di dimostrare quanto Arendt fosse contaminata dall’ideologia dominante in Germania nella prima metà del Novecento. Beninteso, si tratta di un nazismo filtrato da enormità e esasperazioni, ma pur sempre di nazismo. Intorno a questa tesi Faye, docente di filosofia all’università di Rouen, costruisce un imponente libro: Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée( Albin Michel, pagine 570, euro 29,00). La questione diventa centrale per Faye perché «Hannah Arendt è l’unico scrittore politico apprezzato al tempo stesso dai teorici della sinistra più radicale; dai politologi liberali che, trattandosi di un’autrice antimarxista, continuano a citarla anche quando converte il liberalismo nel suo opposto; dai comunitaristi e dagli autori arciconservatori ». Insomma è pericolosa per il suo successo, avendo disseminato le sue idee attraverso tutto lo spettro delle posizioni politiche. La pensatrice avrebbe agito, secondo la ricostruzione del filosofo d’Oltralpe, in maniera subdola. «Invece di formulare espressamente posizioni così controverse come quelle degli autori a cui realmente si ispira e che l’avrebbero esposta a una probabile riprovazione – spiega Faye –, Hannah Arendt trasmette la sua visione in maniera indiretta. Si tratta di una strategia molto più convincente, la cui efficacia ha contribuito, nel corso degli anni Ottanta, dopo la sconfitta politica del marxismo in Europa, a portare una parte della sinistra culturalista e postmodernista a far propri i concet- ti apparentemente rivoluzionari della pensatrice ma tratti da autori dell’estrema destra tedesca degli anni Trenta, come Heidegger, Gehlen o Carl Schmitt». Arendt recupererebbe quindi le idee di autori prossimi al nazismo e le edulcorerebbe per renderle digeribili ai suoi contemporanei, memori dei misfatti della guerra. Un esempio delle sue capacità di dissimulazione? Per Faye tradurre, come fa Arendt, il Mitsein heideggeriano (letteralmente essere-con) con «stare insieme» renderebbe opaco il riferimento ai legami politici di sangue e suolo inneggiati dal nazismo. «Non si tratta qui per Arendt – commenta l’autore – di difendere una società democratica in cui coesistono delle identità libere, ma di promuovere una concezione organica della comunità politica senza riconoscere alcun diritto naturale agli esclusi». Pur evitando di fare della filologia sembra che anche ora a Faye sfugga il significato del Mitsein nel pensiero di Heidegger come pure la complessità del vivere-insieme della pluralità degli uomini affrontato dalla filosofa naturalizzata americana nel bellissimo testo, oggi esaurito, Che cos’è la politica?. Eppure non si tratta solo di problemi di filologia e di diffusione subdola del pensiero antidemocratico tedesco. Faye trova anche considerazioni esplicite che avvicinerebbero pericolosamente Arendt al nazismo. «Indagando l’antisemitismo presente in Le origini del totalitarismo si trova l’affermazione secondo cui gli Ebrei avrebbero una “responsabilità specifica” nella formazione dell’antisemitismo moderno. Per imporre la sua tesi Arendt rifiuta quella del capro espiatorio come quella apparentemente opposta di un antisemitismo eterno. Non esita ad accostare alle pratiche totalitarie le dottrine che respingono la responsabilità degli ebrei e che anzi ne proclamano l’innocenza. Scrive in effetti che “le dottrine che smentiscono ogni responsabilità specifica degli ebrei si avvicinano a pratiche e forme moderne di governo che utilizzano il terrore arbitrario per sopprimere ogni attività umana”». Insomma dissimulerebbe le responsabilità naziste per denigrare, appioppandogli l’accusa di antisemitismo, chi il nazismo l’ha combattuto. Nella ricostruzione minuziosa ma anche allucinogena di Faye Arendt sarebbe dunque « fascisante », fascisteggiante, per il tentativo di discolpare la cultura tedesca dalle responsabilità e per il suo atteggiamento aristocratico e reazionario che la porterebbe a rinvenire presso gli antichi greci schiavisti l’ispirazione per descrivere la condizione umana. Che Arendt si interroghi sulla desolazione ai tempi del totalitarismo avvalendosi del lessico heideggeriano o che faccia della natalità e non della mortalità la cifra propria alla condizione umana per Faye rimarrà pur sempre contaminata dalla sua frequentazione con Heidegger e di conseguenza dal nazismo. Un libro filosofico a tesi, il suo, ma che potrebbe essere felicemente letto come un avvincente romanzo di fantapolitica.
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