«Per millenni si sono riciclati edifici e intere città – sostiene il critico dell’architettura Nikos Salìngaros –, ma perché questo avvenga occorre che i materiali e le tecniche di costruzione siano durevoli, com’erano nella tradizione. Invece dagli anni ’20 del ’900 l’uso di materiali industriali, dal cemento armato al vetro, ha portato a realizzazioni di qualità così scarsa che si può pensare solo alla loro rottamazione». Sono due logiche a confronto: riciclaggio o consumismo. Da tempo il mondo si è accorto che consuma materie prime a una velocità eccessivamente elevata. Nei Paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) i rifiuti urbani dal 1980 sono cresciuti del 40% in termini assoluti e del 22% su base individuale, mentre entro il 2020 ci si attende una ulteriore crescita del 40% circa rispetto al 2000. Questo perché la logica del riciclaggio, che è quella che presiede alla vita della biosfera, non è ancora entrata nella cultura industriale: ma ci si aspetta che prima o poi diventi dominante anche nell’universo umano. Non è semplicemente questione di utilizzare meglio le risorse e di ridurre gli sprechi, bensì di far evolvere l’atteggiamento di fondo: il riciclaggio trasforma il materiale di scarto in risorsa primaria. In altri termini consente di generare nuovi prodotti senza estrarre materia prima dal suolo.E il discorso non si limita ai prodotti di serie, ma si estende anche a quella realizzazione principe dell’attività umana che è la città e ai suoi elementi costitutivi, gli edifici. Com’è noto infatti, l’espansione del territorio urbano è il primo fattore di consumo dei suoli. Riguardo agli edifici è raro sentire parlare di riciclaggio, il termine ricorrente è «ristrutturazione» che evidenzia la loro particolarità: lavori più o meno imponenti possono variare gli spazi e le dimensioni di singole opere o di interi brani di città, con costi equivalenti o superiori a quelli di una costruzione nuova. Sono lavori che si compiono con sempre maggiore frequenza nelle aree un tempo occupate dalle fabbriche, che all’origine erano in zone periferiche e oggi spesso sono diventate semicentriche a seguito dell’estensione urbana che ha invaso le campagne, in molti casi comportando la scomparsa di queste. Attivare la logica del riciclaggio comporterebbe di mantenere in via sostanziale gli edifici esistenti e di garantire anche il mantenimento della campagna rimasta.Si può fare? «Non sempre – dice Salìngaros – il noto palazzone romano del Corviale, preclaro esempio di modernismo va abbattuto. Uno studio preliminare ha dimostrato che è corrotto dall’umidità e sarebbe eccessivamente costoso recuperarlo». È il tipico problema del cemento armato: se l’umidità raggiunge i ferri questi arrugginiscono, col tempo perdono spessore e forza, e a lungo andare la stabilità strutturale può ridursi pericolosamente.Il passaggio, da edifici pensati per durare secoli a edifici effimeri, andrebbe quindi superato, per poter rientrare nella logica del riciclaggio. «Ma oggi c’è ancora una tendenza dominante a costruire per la breve durata. Negli Stati Uniti la grande bolla speculativa che ha fatto esplodere la crisi attuale si è fondata proprio su questo: vendere case all’apparenza tradizionali (perché queste piacciono alla gente) ma di qualità talmente scarsa che dopo pochi anni hanno bisogno di radicali e troppo costose ristrutturazioni».Quindi tutto il contemporaneo è prima o poi da buttare? «Con altri autori, quali Leon Krier, sono stato recentemente invitato a elaborare proposte per Rotterdam. La città è stata totalmente ricostruita nel dopo guerra con criteri modernisti, talché c’è un’uniformità che oggi è venuta a noia. La mia idea è di mantenere selettivamente solo alcune torri più recenti, che danno garanzie di durata, ma di sostituire gli edifici anni ’60 che sono al termine della vita strutturale e ripensare alla geometria globale della città. Si possono erigere nuovi edifici più bassi che quindi consentono una migliore qualità di vita, riutilizzando gli spazi aperti oggi inutilizzati. Una piazza non ha bisogno di essere enorme: basta che sia accogliente e adatta agli incontri. Propongo che si recuperi il linguaggio delle forme, ricorrendo a elementi della tradizione olandese e fiamminga, molto presente in questo Paese, per realizzare quartieri nuovi che si caratterizzino per una certa coerenza segnica, così che chi li visita sappia già dallo stile degli edifici dove si trova».Forse non era esplicito nei costruttori antichi che le loro opere dovessero durare secoli, né in quelle postbelliche che potessero arrivare presto all’obsolescenza. Di fronte all’obiettivo oggi improcrastinabile di riciclare le aree urbane ex industriali (in città come Torino e Milano le opere in corso sono ingenti e cambiano radicalmente il panorama), il problema di costruire edifici che possano essere riciclati, cioè che abbiano un futuro, diventa primario. Nel frattempo si moltiplicano gli esempi di edifici industriali che erano stati abbandonati e oggi sono variamente riciclati: per esempio a Madrid la vecchia stazione ferroviaria di Atocha è diventata un enorme atrio dotato di un’immensa serra per la nuova stazione dell’alta velocità (progetto Moneo) o a Londra la galleria d’arte Tate Modern ha trovato spazio nei vecchi magazzini del porto (progetto Herzog e De Meuron); anche ad Amburgo il museo di arte contemporanea è stato ubicato nella vecchia stazione ferroviaria, e lo stesso è avvenuto a Berlino (progetto Kleihues); a Roma le scuderie di Villa Aldobrandini (sec. XVII) sono state trasformate in museo archeologico (da Doriana e Massimiliano Fuksas). E il riciclaggio entra a pieno titolo nel dibattito dell’architettura contemporanea.