L’archeologia moderna trova nuovi metodi per interpretare i reperti del passato e comprendere meglio la visione della vita (
weltanschauung) che esprimono. Cambia la "filosofia" che ispira il modo di riportare alla luce, e di conservare, le testimonianze antiche. Questa innovazione non dipende soltanto dalle tecnologie d’avanguardia. È la concezione stessa di archeologia che viene sottoposta a revisione critica. E il presente in evoluzione ha prodotto l’«archeologia globale dei paesaggi», formula ideata dal professor Giuliano Volpe, già Rettore dell’Università di Foggia. «Per Volpe e per tutti coloro che si occupano di geoarcheologia o, meglio, di
human ecology, il paesaggio è un "palinsesto vivente", che poggia non solo sui grandi "fulcri" isolati (monumenti e aree archeologiche importanti, opere d’arte di pregio) ma anche su tracce più labili, nei centri urbani, nelle campagne, lungo le coste e nei fondali. Beni correlati fra loro, che soltanto se inquadrati in un "sistema", diventano comprensibili in tutto il loro valore storico, culturale e sociale», spiega Rita Auriemma, docente di Archeologia Subacquea nella Facoltà di Beni culturali dell’Università del Salento, a Lecce. Insomma la nuova archeologia contestualizza i reperti. L’attenzione non si concentra più sul singolo "pezzo", per quanto eccezionale e inconfondibile. È definitivamente tramontata quell’ archeologia che - secondo l’Auriemma - riflette una mentalità «puntiforme», «filatelica», che fa dell’archeologo un «collezionista». (Nella lunga epoca che si è chiusa, spesso lo scavo archeologico legale non differiva molto da quello illegale compiuto dai "tombaroli". Sovente i due tipi di scavo soddisfacevano la stessa irrefrenabile brama: portare via - prima possibile - il "pezzo" di maggiore risalto, che richiamava più pubblico).Ancora oggi, a un’analisi approfondita, lo scavo archeologico risulta un atto di «distruzione» afferma Andrea Carandini, presidente del Fondo per l’Ambiente Italiano. Carandini è considerato colui che - sulle orme dei «padri fondatori» dell’archeologia moderna in Italia, tra cui Nino Lamboglia e Ranuccio Bianchi Bandinelli - ha introdotto i principi e i metodi dell’archeologia stratigrafica. E non vuole certo condannare in blocco gli archeologi. Se si raccoglie una rigorosa documentazione, chiarisce infatti, il palinsesto può essere ricostruito fedelmente. Proprio lui, del resto, ha diretto uno degli scavi che hanno fatto scuola in Italia, formando una nuova generazione di archeologi, tra la seconda metà degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80: quello della Villa romana di Settefinestre, nell’ «ager cosanus», il territorio della colonia di Cosa, presso Orbetello, nel Grossetano, racconta Rita Auriemma. E aggiunge: «Oggi la teoria archeologica più innovativa, promettente e foriera di risultati è l’ "archeologia globale dei paesaggi" perché tratta il territorio - sia esso urbano, rurale, costiero, marittimo - come un
unicum in cui tutti i segni, antropici e naturali, hanno pari dignità e vanno perciò censiti e compresi. Lo studio interdisciplinare, al quale partecipano vari specialisti, tra cui archeologi, archeozoologi, paleobotanici, geologi, fisici e chimici, punta a ridisegnare la fisionomia antica dei paesaggi nelle varie fasi e a comprendere forme e modi del popolamento, che si sono evoluti nel corso dei secoli, trasformandosi insieme con il paesaggio».L’approccio scientifico parte con un dietrofront rispetto agli scavi condotti durante il fascismo. Allora l’archeologia (che quasi sempre rispecchia la cultura che è al potere) si era fatta strumento ideologico. L’obiettivo politico era recuperare, ad ogni costo, l’architettura di epoca romana per alimentare il culto della romanità, uno dei pilastri del regime. Per raggiungere questo obiettivo furono portati alla luce nella capitale interi quartieri di età romana, sacrificando o sopprimendo tutte le fasi post-antiche, alto-medievali e medievali. Il metodo scientifico procede con più razionalità e rispetto. L’ archeologia estensiva e stratigrafica vuole "rileggere" la storia scavando gli strati nell’ordine inverso a quello in cui si sono formati (l’archeologia del ventennio, invece, per scendere subito in profondità e trovare mura e sculture romane, distruggeva i tesori delle epoche relativamente recenti). L’archeologia moderna sfoglia le pagine della storia come un
continuum. Il paesaggio si fa museo. E l’archeologia diventa geo-archeologia o
human ecology, cioè «il modo di comprendere gli esseri umani e i gruppi umani in paesaggi che mutano», come sostengono due studiosi inglesi, James Bintliff e George Barker. Se i paesaggi non sono rimasti intatti nei secoli e nei millenni, questo è avvenuto in modo particolare lungo le coste e anzi è vero per tutti i «paesaggi d’acqua» - come li definisce Rita Auriemma - che comprendono anche fiumi e lagune, ambienti «sfuggenti e camaleontici».Rispettare il contesto è ormai imperativo categorico anche nell’archeologia subacquea. La concessione di scavo, sulla terra o sull’acqua, viene firmata solo se il concessionario s’impegna a rispettare norme severe. Una perdita incolmabile è quella provocata dal colossale saccheggio del patrimonio archeologico sommerso. A metà del secolo passato, quando il professor Nino Lamboglia, fondatore dell’archeologia subacquea italiana, crea l’Istituto internazionale di Studi liguri, il tesoro è già intaccato dalle razzie. Il resto lo faranno - nei successivi sessant’anni - la diffusione capillare dell’autorespiratore, che oggi sta per essere superato da sistemi ancora più avanzati, che prevedono l’uso di miscele di gas o il parziale riciclo dell’ossigeno nelle bombole. È entrato nella storia il primo scavo archeologico subacqueo, compiuto da Lamboglia, ad Albenga, nel 1950 su una nave oneraria del I secolo a.C. Un mezzo per recuperi sottomarini, l’ "Artiglio", calò nell’acqua una benna; le anfore romane furono tirate su, insieme con fasciame della nave. Lamboglia sapeva di dover ricorrere ad altre metodologie, ma acquisì una certezza: l’archeologia subacquea poteva diventare una risorsa per l’Italia dei beni culturali. Oggi s’intravedono buone prospettive. In Croazia, riferisce la professoressa Auriemma, si sta tentando con successo di musealizzare
in situ campi di anfore, sarcofagi, colonne e altri relitti. Sono stati lasciati "a vista" cumuli di anfore di grande impatto scenografico, coperti e protetti da gabbie modulari, con pannelli rimovibili. Sono al sicuro e sono visibili. Un centro organizza le visite dei sub al sito archeologico. Ma anche i turisti che non si immergono potrebbero godere della vista dei giacimenti e del lavoro degli archeologi, grazie a telecamere a circuito chiuso, come si sta pensando di fare anche in Italia. In futuro, grazie a nuove tecnologie (tunnel subacquei dalle pareti trasparenti) si potrà ammirare da vicino il carico di navi affondate da millenni.