Fedele al motto di un suo programma, Cari amici vicini e lontani, Renzo Arbore riunirà domani sera, a L’Aquila, la gente d’Abruzzo per un concerto-evento gratuito dedicato ai terremotati. Solo lui e la sua Orchestra Italiana, la sua banda un po’ swing, un po’ jazz, un po’ blues ma molto napoletana. Neanche il tempo di tornare dal Canada e dalle cascate del Niagara per il suo tour, che l’artista di Foggia con il cuore a New Orleans, è ripartito, cappello e mandolino, alla volta di L’Aquila: «Appena mi hanno proposto il concerto ho detto di sì e con me tutti gli altri componenti del gruppo». In pieno agosto, quindi, lontano dai mega eventi che hanno, chi più chi meno, raccolto la solidarietà del pubblico italiano per gli abruzzesi.
Ma lei perché non c’era sul palco al concertone dello Stadio Olimpico di giugno? In verità non mi hanno interpellato. Ero in tournée in America, ma avrei partecipato molto volentieri. Non l’ho per niente snobbato. Anzi, penso che i grandi eventi musicali siano l’ideale per la solidarietà. Può succedere che non funzionino ma, fatti bene, hanno una grande forza trainante, coinvolgono ed educano le nuove generazioni. Basta vedere cosa hanno fatto gli americani e gli inglesi negli ultimi trent’anni. Penso a Bob Geldof, ai concerti per la pace e contro la fame nel mondo.
La musica, quindi, si può declinare con la solidarietà? Si deve declinare. Come avviene spesso in Italia. Molti miei colleghi si sono subito mobilitati: non solo grandi star ma anche jazzisti come Stefano Bollani. Sono orgoglioso di appartenere al mondo della musica. Non si parla mai del fatto che a differenza di altri settori dello spettacolo i musicisti sono i primi a mobilitarsi per promuovere la solidarietà. Va bene, bisticciamo, scattano le invidie, ma alla fine tutti, rockettari, artisti del pop e del blues siamo pronti a scattare quando succedono queste tragedie.
Come in Abruzzo. Cosa significa per lei, suonare in quei luoghi? È un dovere e, assieme, un piacere immenso. Io sono pugliese e mi sento un po’ cugino dell’Abruzzo. È il posto dove ho passato la mia infanzia, quando, durante la guerra, da sfollati ci siamo rifugiati a Francavilla al Mare. E poi, per me, L’Aquila era la capitale. Sarà un concerto che cercherà di far dimenticare per due-tre ore tutte le sofferenze, psicologiche e materiali: per la perdita dei propri cari e per quella delle cose quotidiane. Perché per noi meridionali anche perdere una fotografia significa perdere un pezzo di vita.
Il suo animo meridionale come l’ha presa la proposta leghista di inserire una sezione in dialetto per il festival di Sanremo? La musica dialettale già vive. Quella è una proposta velleitaria, un errore che vorrebbe servire a dare spazio ai dialetti del nord. Ma non si è ancora capito che saranno sempre i dialetti musicali del sud a vincere. Anche se molti grandi della musica italiana vengono da 'su'. Penso a Jannacci, Mingardi e altri con cui ho suonato e cantato nei loro dialetti. Se io vado in Cina canto anche in cinese. Non si può amministrare la musica con la legge e le etichette. Altro discorso è che si deve dare più spazio alle canzoni dialettali.
E la tv? La farebbe ancora oggi? Il problema è che io la tv la vedo ridotta male. Non ci sono più idee. Tutti proni alla dittatura dell’auditel. Non c’è niente di artistico e di creativo. Si è perso il concetto di gusto e di eleganza. Si pensa che elegante sia il sinonimo di elitario. Spesso rifletto sul successo di trasmissioni come Supervarietà , che mandano in onda repliche su repliche di programmi del passato. E questo perché quella era una televisione senza tempo, duratura. Oggi invece con i reality e gli squallidi racconti da sottobosco si fa una tv usa e getta. Senza prospettiva futura.