Tra pochi giorni, il
13 febbraio, arriverà al Festival di Berlino con il suo nuovo film, Tatarak, versione cinematografica del noto dramma polacco dello scrittore Jaroslaw Jwaszkewicz su una donna di mezza età che combatte contro dolorosi ricorsi di una vita e riscopre la forza dell’amore. Lo stesso giorno però il regista polacco Andrzej Waida si affaccerà sugli schermi italiani con il film che l’anno scorso commosse il pubblico della kermesse cinematografica tedesca. Katyn, distribuito nelle nostre sale dalla Movimento Film, racconta infatti una strage occultata per anni, quella di 22mila polacchi uccisi nel 1940 per ordine di Stalin, deciso a decapitare la futura classe dirigente del paese. Tra gli ufficiali dell’esercito sterminati c’era anche il padre del regista che con la madre ignorò per anni la verità.
Quanto c’è nel film, Wajda, della sua personale esperienza? Ho perso mio padre Jakub a 13 anni e sono vissuto con mia madre che lo ha aspettato per tutta la vita, incapace di accettare la verità solo perché il suo nome era scritto in maniera errata nella lista dei morti. Non abbiamo mai avuto una risposta sul motivo della sua uccisione. Era inevitabile che i miei genitori diventassero personaggi del film, ma volevo che Katyn fosse al tempo stesso la storia di un dolore individuale e collettivo non politicamente strumentalizzabile. La storia di un crimine, ma anche di una menzogna che ancora oggi continua.
Gli ufficiali polacchi nel film non hanno cognome. Come mai? Per evitare problemi con i familiari delle vittime. Però ho inserito la figura dell’ufficiale sovietico Popov per dimostrare che è vero ciò che dice la Bibbia: basta un solo uomo giusto perché il Signore perdoni a tutti.
Perché sono trascorsi tanti anni prima che lei decidesse di raccontare questa pagina di storia così importante? Durante il comunismo l’argomento era tabù. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e dopo che Gorbaciov nel 1990 ammise la responsabilità dei sovietici nella strage di Katyn è sorto il problema di come mettere in scena una tale mole di documentazione improvvisamente disponibile. Nessuno in tanti anni, neanche all’estero, aveva mai scritto nulla sull’argomento.
Quali materiali ha privilegiato, allora? Ho scelto di ispirarmi al romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk e di utilizzare i diari dei familiari che aspettavano invano il ritorno dei prigionieri. Tra queste preziose memorie ci sono anche quelle di mia madre. L’obiettivo principale era quello di trovare la maniera giusta per parlare ai giovani che considerano questa storia ormai lontana.
In Polonia il film è stato accolto molto bene. Sì, è stato visto da oltre tre milioni di persone. La prima proiezione a Varsavia è stata seguita da un lunghissimo, profondo silenzio interrotto solo da chi ha cominciato a pregare per i morti. Il silenzio ha accolto il film anche a Mosca, poi uno spettatore ha chiesto a tutta la platea di alzarsi in piedi per onorare le vittime di Katyn. In quel momento ho capito perché ho realizzato questo film.
Secondo lei. è possibile una riconciliazione? Credo di si. Durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti hanno ucciso sei milioni di polacchi e sembrava impossibile riaprire il dialogo con i tedeschi. Poi i vescovi polacchi concessero il perdono con una lettera ai vescovi tedeschi e i rapporti cominciarono lentamente a migliorare. Non sono affatto pessimista, ma lasciarsi il passato alle spalle richiede molto impegno.