Ieri alla Camera si è tornati a parlare di pena di morte. Lo spunto è stato il libro di Nicolò Amato
Caino e Abele. Vita per vita? ( Treves, pp 176, euro 18,00) del quale abbiamo già discusso su queste pagine. Un libro documentato e rigoroso dal punto di vista giuridico, scritto da un magistrato che, come lui stesso afferma, ha una «passione struggente» per «tutto ciò che riguarda il delitto e il castigo» e negli “anni di piombo”, così come nell’epoca in cui era direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si è a lungo interrogato sulle ragioni della rieducazione dei condannati e sulla necessità che questa risulti una strada davvero percorribile: «perché la realtà delle carceri l’ho toccata con mano e lì dentro non c’è semplicemente privazione della libertà. Lì dentro», se manca un progetto di rieducazione e reinserimento nella società, «non è vita, è assenza di identità, è la fine della speranza». E allora, ci si chiede, come può un uomo che crede fermamente nella riabilitazione e che si confronta apertamente con Beccaria, Tommaseo, Rousseau, Cattaneo e Victor Hugo condividendone le ragioni, ritenere giuridicamente possibile la pena di morte? La domanda ha sotteso l’intero dibattito di ieri nella sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio, dove con Amato si sono confrontati il presidente della Camera Laura Boldrini, il presidente del Gruppo misto alla Camera Pino Pisicchio, l’ex parlamentare Marco Boato, il direttore di
AvvenireMarco Tarquinio e Riccardo Noury di Amnesty international. Tutte personalità dichiaratamente contrarie alla pena di morte e, di conseguenza, alla tesi propugnata da Amato per il quale risulta, alla fine, l’unica soluzione «ragionevole» di fronte all’«irragionevolezza» dei «mostri», cioè di coloro che si sono macchiati di orrendi e ripetuti delitti, continuando a mostrare assoluta assenza di pentimento e di desiderio di riabilitazione, oltre che di pietà verso le loro vittime. Non a caso i concetti che nel corso della tavola rotonda sono risuonati più di frequente sono stati quelli di «provocazione» e di «sfida». Nel dettaglio Laura Boldrini ha parlato di «libro che mette tutti a dura prova» per l’onesta capacità di argomentare, unendo insieme la giusta corrispondenza fra delitto e pena con la necessità di preparare il condannato al reinserimento nella società. «La prova» per il lettore, secondo la Boldrini, giunge «con la carrellata di casi estremi di fronte ai quali non è sempre facile riaffermare il “no” alla pena di morte». E, provocazione nella provocazione, la scelta di definire queste persone che rifiutano ogni forma di redenzione «con la parola “mostri”», così lontana dal
politically correct. Una provocazione che Marco Tarquinio coglie nella aperta capacità di Amato di delimitare il concetto di “mostro” «a una categoria precisa» di persone, quando invece il mondo dei media «inscatola ogni giorno qualcuno» in questa parola, e in maniera «dilagante». Ma per il direttore di
Avvenire il libro è provocatorio anche perché spinge a confrontarsi con un problema che da noi non è affatto superato, poiché «viviamo il tempo in cui» si dibatte sull’opportunità di introdurre «una forma privatizzata di pena di morte» attraverso l’estensione del concetto di legittima difesa. In ogni caso, di fronte a situazioni estreme (compresa l’eventualità che un giorno dovremo giudicare «i signori dei coltelli del califfato nero dell’Is) «credo che non si possa dare ragione al “mostro” vero, accettandone la logica fino alla condanna a morte, che è porsi al suo stesso livello». Boato ha ricordato che non si tratta di un problema così lontano da noi: fino al 1994 la pena di morte era ancora prevista dal codice militare e solo nel 2007 è stata approvata la riforma costituzionale, che ha tolto all’articolo 27 la frase che ne escludeva il divieto «nei casi previsti dal codice militare di guerra». Questo libro, ha aggiunto, «ci pone di fronte alla necessità di misurarci sull’argomento senza mai dare nulla per scontato». Per Noury è un libro che «ci sfida» sull’urgenza di tornare a parlare di pena di morte. Una provocazione ancor più stringente, ha detto Pisicchio, per il fatto che «mai Amato nega, semmai la afferma con forza, la dignità che si deve a ogni essere umano».
© RIPRODUZIONE RISERVATA A Montecitorio alla tavola rotonda per il libro “Caino e Abele” hanno preso parte la presidente della Camera Boldrini, il direttore di Avvenire Tarquinio, Noury, Pisicchio e Boato. «Riflessione che mette a dura prova, ma che l’autore svolge nel rispetto totale della dignità umana»