Nella mia lunghissima giovinezza in provincia – un tempo che mi par sempre ier l’altro ed è un film tutto dal vero e recitato a soggetto –, ho visto, conosciuto e ascoltato i reduci della grande guerra Quindici-Diciotto. E molti, tra loro, erano Alpini di famosi battaglioni presi a cannonate, schiantati e rifatti una, due, tre, quattro volte perché il fronteggiarsi sui monti fra italiani e austriaci non smettesse mai di sanguinare. A scuola, allora, ci insegnavano la Grande Guerra quasi che i combattenti fossero stati di carta, sempre in posizioni epiche e slanci di valore come li inventava a tavolino il pittore Achille Beltrame per le sue copertine della diffusissima, popolare, ineludibile Domenica del Corriere. Su quelle pagine, gli Alpini – come del resto i Fanti, i Bersaglieri, i Cavalleggeri, gli Arditi e quanti ancora portavano al bavero grigioverde le stellette del Regio Esercito – figuravano possenti (e lo erano), generosi (e lo dimostravano), irriducibili (e ne meritavano la fama), ma anche partecipi di uno spettacolo patriottico e sempre di nobile aspetto e di volto ispirato.Era indispensabile che i disegni e le stampe li mostrassero così e gl’italiani di allora – che non si chiamavano ancora «il Fronte interno» – pensassero ai loro cari alle frontiere come mitici attori di un’epopea garantita. L’epopea c’era. Altro, se c’era. Ma gli Alpini e gli Altri – soprattutto le truppe di montagna – erano lerci, stracciati, sporchi, pidocchiosi, malconci e male equipaggiati, appena una mantellina per star sotto la pioggia e la neve, il rancio che sapeva di piscio di mulo, le gallette ormai di pietra, il vino infimo, la sgnappa quando ne girava una borraccia, i topi lunghi un braccio dentro e fuori delle trincee e dei camminamenti, i cristiani che morivano di mitragliatrice austriaca e i ratti pelosi che giravano su e giù per i morti distesi, l’aria stracciata dalle vampe, le schegge, le bende luride, il gemere dei feriti nell’esagitarsi delle barelle.Ed ecco il grido improvviso, di buca in buca, di tana in tana, si va all’assalto, le baionette in canna, il corpo inerme a farsi fuori nella terra di nessuno, oltre gli spalti, correre!, i reticolati a corone di spine, l’aria sberlata, il cuore in gola e nelle orecchie, la Morte alta, immensa, canagliesca, diafana, i denti, il teschio, le mani ossute a grinfia, il Nemico che cresce, cresce, è di fronte, è lui, bisogna ammazzarsi fra giovani, fra padri, fra vivi, fra genti che straparlano e sparano tutto quel che c’è da sparare. Poi, le lame nude, i pugnali, le baionette a farsi baleno e orrore. Gli squarci. L’odor di sparato, l’aria frusta, violata, l’obice che si fa lontano, poi tace. Ci sono gli appena morti da contare col dito; chèst chi, chél là, chel’àlter, sì che l’è lù, barelliere! Barelliere! Mamma!, si sente gridare. Mammaaa! I reduci Alpini e gli Altri venivano a casa mia quando io avevo l’età per capirli, anni Trenta. E c’era la pace, allora, o quasi. E quel che i veterani narravano accerchiando la tavola alla buona, sorseggiando un bicchiere di rosso, a volte giocando a briscola con le carte piacentine, i re, i fanti, i cavalli, gli assi, il fumo quieto delle Macedonia e dei mezzi toscani (mio nonno coi baffi d’imponenza umbertina), quel che si dicevano e io sentivo, non era più quel che ho scritto qualche riga fa. Era già adagiato, già fatto memoria e rimaneva ormai lontano dall’esatta misura delle cose. Pareva farsi leggenda e ricordo in cornice. Con bonomia, con l’avvenuta rassegnazione dei superstiti, i reduci e gli scampati riferivano storie di patimenti per cui non possedevano – adesso – che parole asciutte. O per meglio dire: prosciugate.Avevano tutti molto patito in guerra, gli Alpini che conoscevamo noi e gli Altri che ci erano cari. Non sapevano mai perché fossero rimasti vivi, dentro la macina stridentissima della tragedia. E dicevano il poco che gli veniva. Quanto bastava – a me – per intendere come la guerra, la vera guerra di giorni, mesi e anni, fosse assolutamente diversa dai libri di testo, dai volumi di scuola che ce la raccontavano al modo dei monumenti di città e di paese: i combattenti a torso nudo, invitti, mai domi, con un arcangelo in volo che cingeva le fronti di alloro e la coronava. In quelle mie lontane e ben distinte ore di prossimità coi reduci (qualcuno decorato al valore, qualcuno promosso per audacia, qualcun altro con ancora del piombo in corpo, un frammento, una busca d’acciaio austriaco), mi accorsi che nessuno si era negato alla prova, anche se l’aveva maledetta e poi esacrata. E che era accaduto a quegli uomini quel che vedevo in assoluta evidenza davanti a me: quando si fosse chiamati a un cimento straripante, non c’era altra scelta che la dignità del reggere, del contenersi, dell’indurirsi per impedire all’anima ogni discrezione. Non c’era che far tutto per sé e per i compagni di disgrazia, far sempre quel che si sarebbe fatto per se stessi: rimanere doverosamente a galla sui fatti, traversarli, impugnarli, dominarli con forze profonde che non si supponeva di avere.Tutti gli Alpini del Quindici-Diciotto, tutti che allora fossero soldati in linea, avevano marciato con la coperta arrotolata attorno alle spalle, lo sbattere delle gamelle e delle gavette, lo zaino con dentro le pezze da piedi della naja, le mutande lunghe, le scatolette, i caricatori, la pagnotta, le croste di cacio, la maglia, l’ago e il filo, il sapone, le lettere di casa, la camicia senza colletto, i santini, le reliquie e un ricambio di fasce mollettiere con cui serrarsi i polpacci e arrancare a mezza gamba nel risucchio del fango. Tutti i combattenti avevano il gilè borghese sotto il liso grigioverde della giubba d’ordinanza. Era un gilè solitamente nero, un gilè di pace, da contadino, operaio, impiegato, mungitore, commerciante, pastore, fabbro, sarto, maestro, boscaiolo, falegname, carrettiere, minatore, ferroviere, bottegaio. E una catena traversava il gilè. E finiva nel taschino dell’orologio da caricare a mano, ogni sera, al buio, e sperare che non segnasse mai l’ultima ora e si tornasse, con gli scarponi sfondati, da dove – città e villaggi – s’era partiti ignari o consapevoli, trepidi o sicuri, forti o appena cagionevoli, testoni o riflessivi, comunque diversi, con le fanfare in testa e il canto facile: «Addio mia bella addio», un succedersi di strofe che, mano a mano, miglio dopo miglio, e là sul farsi delle trincee di piano o di quota, languiva senza mai spegnersi.Quindici-Diciotto, allora. Ho annotato queste cose per una sola ragione. Perché, quando vedo sfilare festosi iscritti a un’associazione d’arma – gli Alpini in congedo, per esempio – mi auguro sempre che tutti loro siano in rango per ricordare a chi li guarda, a chi li vede, a chi li accoglie e li stima quanto sia ardua, tagliente, livida, ustionante e mai cicatrizzata la parola «epopea». Intendo proprio l’epopea in cui incorsero per l’Italia che fu, per l’Italia in parole povere, gl’italiani che ci furono padri e parenti, quelli vestiti da soldati a cui toccò il confronto fra il camino acceso, mentre i bambini dormono, e il botto inverecondo del mortaio che slarga le tenebre e proclama scempio, rovina, orfani, vedove e lame roventi nel cuore. Insisto. Tutti avevano il gilè nero sotto le mostrine e l’uniforme acre di sudori. Tutti tenevano sul cuore foto d’amore e custodivano parole di bene e di fedeltà nel portafogli sbrecciato e gonfio. Avevano sempre gli zolfanelli che chiamavano fulminanti e servivano per far fumo di cicche e di spuntoni, e per guardare il fumo torcersi, salire, andar libero, almeno lui.