Cento giorni tra il settembre e il dicembre 1942 – settant’anni fa – e la guerra contro l’Unione Sovietica voluta da Hitler con l’immediato appoggio di Mussolini (illusosi che il conflitto si sarebbe concluso con la vittoria dell’Asse e soprattutto che sarebbe stata di breve durata) avrebbe assunto i contorni di una tragedia.Una tragedia che, nel gennaio del 1943, si sarebbe infine sciolta nella drammatica ritirata delle nostre truppe con decine di migliaia di morti, feriti e prigionieri. Una pagina di storia politica e militare del nostro Paese in gran parte nota – anche per le polemiche e le contrapposizioni politiche proseguite per anni nel dopoguerra – che ha il suo inizio il 21 giugno 1941, quando con l’Operazione Barbarossa Hitler decideva unilateralmente d’invadere l’Urss, puntando su un rapido successo contro un Paese bolscevico ritenuto non in condizioni di resistere alle armate tedesche, le quali in agosto avevano già occupato l’Ucraina.Anche l’Italia dichiarava subito guerra all’Urss e in luglio il Duce inviava nel lontano Paese un apposito corpo di spedizione, lo Csir, al comando del generale Messe e forte di sessantamila unità dotate – come si legge in un diario – di «uniformi leggere e calzature estive»: tanto la guerra sarebbe stata breve. Il conflitto infatti sembrava volgere al meglio per i militari dell’Asse, anche se gli italiani avrebbero avvertito ben presto il comportamento «arrogante e prepotente» e sostanzialmente ostile dei comandi germanici. Il 28 agosto Mussolini e Hitler si incontravano intanto a Kiev. Ma nei mesi successivi sarebbero cominciate le prime difficoltà. Le truppe tedesche avevano già dovuto registrato la perdita di oltre un milione di uomini e avvertivano la mancanza di riserve sufficienti.Hitler si rivolgeva quindi ai Paesi alleati, Ungheria, Romania e soprattutto Italia. Nell’aprile 1942 il Duce e il Führer s’incontravano di nuovo, a Salisburgo; la partecipazione delle forze armate italiane veniva riorganizzata con la costituzione dell’Armir (Armata italiana in Russia) aggiungendo ai contingenti del Csir altre divisioni (complessivamente oltre duecentomila militari con settemila ufficiali) che sarebbero partite dall’Italia con l’inizio dell’estate. Ma in agosto i comandi delle tre divisioni alpine (Tridentina, Julia, Cuneense) ricevevano l’ordine, singolare, di cambiare la loro destinazione originaria: anziché raggiungere le alture del Caucaso dovevano attestarsi nella pianura ucraina. «Era bestiale e criminale inviare sul Don truppe addestrate a combattere in montagna» avrebbe scritto al presidente del Senato, Suardi, il comandante di un reggimento alpino. Ma senza alcun risultato. Entro ottobre, con marce «lente e faticose… con bolle di temperature che raggiungevano i quaranta gradi» oppure sotto violenti temporali che facevano affondare gli alpini e i muli fino alle ginocchia «in viscida appiccicosa melma scura», l’armata italiana si dispiegava lungo il Don su un fronte di duecentosettanta chilometri. Intanto i sovietici, attestati sull’altra sponda del fiume, con l’accorrere di contingenti sempre più numerosi «avevano accumulato un enorme esercito ben equipaggiato» e preparavano la controffensiva. Alla fine di ottobre, infatti, la vittoria di Hitler a Stalingrado non appariva più certa (il 2 febbraio 1943 le truppe tedesche nella città si sarebbero arrese, lasciando in mano russa ben novantacinquemila prigionieri).Per i nostri militari la situazione diventava sempre più difficile anche per la comparsa fin da ottobre della neve, mentre il Don a novembre cominciava a gelare. La maggior parte degli automezzi, progettati per climi ben più miti, diventavano inutilizzabili e gli spostamenti delle truppe si facevano quasi impossibili. Il meteo si rivelava il miglior alleato dei russi. Il 14 dicembre le armate sovietiche sfondavano il centro delle nostre divisioni di fanteria, circondandole e dilagando nelle retrovie italiane. A Natale del 1942 una pioggia di volantini lanciati dagli aerei cadeva sui nostri militari: «L’Unione Sovietica dispone del più grande generale, il Generale Inverno. Vi invitiamo alla resa individuale, a plotoni o compagnie. Arrendetevi, prima che per voi arrivi la fine». Nello stesso giorno la fanteria dell’Armir cessava praticamente di esistere. Il 15 gennaio anche l’accerchiamento delle truppe alpine era ormai un fatto compiuto. Per l’armata che il Duce aveva inviato in Russia, con baldanza pari solo all’impreparazione, non restava che il duro calvario della ritirata o della prigionia nei campi di concentramento.Alla fine, un tragico bilancio di decine di migliaia di morti, spesso per assideramento, di feriti, di dispersi e prigionieri; questi ultimi ammonteranno a settantamila, di cui ventiduemila moriranno subito nelle dure marce per raggiungere i gulag e trentottomila invece troveranno la fine nei quattrocento campi allestiti dai sovietici. Solo centomila furono i militari rientrati in Italia nel marzo 1943, dopo la fine dell’Armir. «Siamo in pochi. I più non sono tornati. Anche noi siamo morti dopo la ritirata. Torniamo alla vita migliore», avrebbe dichiarato don Carlo Gnocchi, cappellano in Urss. Per altri diecimila prigionieri la liberazione sarebbe arrivata alcuni mesi dopo la fine della guerra (e anche più tardi). La tragedia russa era finalmente terminata; Mussolini aveva mandato in guerra un’Italia del tutto impreparata. E gran parte dei nostri soldati era rimasta lassù, nella steppa.