Giovanni Allevi durante il suo monologo all'Ariston - Ansa
«Vedi io sono stanco di volare via /senza fermarmi un momento /Stanco perché domani ti guardi dentro le mani / e ti vedi diverso da quello che eri ieri». È una strofa di Buona fortuna, canzone con cui Mimmo Locasciulli, uno dei tanti figli della musica d’autore, nati e cresciuti nella mitica cantina romana del Folkstudio, partecipò al Festival di Sanremo del 1985. La prima e unica presenza sanremese del “dottor” Locasciulli che come Enzo Jannacci al “cantautorato”, che considera una «brutta parola», ha sempre unito anche il mestiere di chirurgo generale e nutrizionista Clinico. Da medico e da uomo di musica è rimasto molto colpito dall’esibizione nella seconda serata del Festival di Sanremo, di Giovanni Allevi, e soprattutto dalle dichiarazioni del compositore sul palco dell’Ariston riguardo alla sua malattia (è affetto da mieloma).
Locasciulli cosa ha provato, da medico e da cantautore, dinanzi al “momento Allevi”?
Innanzitutto è stato l’unico momento che ho seguito del Festival e ho avvertito, come credo tanti italiani, una grandissima emozione. Come cantautore non ho il bagaglio culturale per analizzare nel merito la sua produzione musicale, che però ho sempre apprezzato molto, per la sua vena romantica e per quella mescolanza di generi, che può comprendere uno come me che è passato dal folk al beat, fino alla dimensione cantautorale. La sua creatività mi piace al punto che, ad ogni nuovo disco in cui pensavo a un album solo musicale, ho provato ad approcciarmi al pianoforte seguendo quella linea “romantica alleviana” che trovo straordinaria. Perciò non ho mai capito il perché di tutte quelle bocche storte della critica che ha scambiato il suo eclettismo, per un “ibrido” da demolire. Non hanno compreso la sua gestualità coinvolgente, geniale, presentandola invece come un limite. Così gli hanno fatto del male, e qualcuno ha esagerato con gli attacchi personali e pretestuosi che hanno fortemente ferito la sua sensibilità.
E qui interviene il parere analitico del medico Locasciulli.
Sì, che però non può dissociarsi dalla componente umana, che è quella che poi Allevi ha messo al centro della sua esibizione sanremese. Il suo è stato un moto dell’anima che conduce a un riconoscimento di altissimo valore emotivo. Per esperienza di tanti anni di ospedale con pazienti oncologici so che non è affatto facile per loro affrontare un discorso sul loro stato di salute, specie nel momento di massima gravità. Di solito sfuggono, si nascondono, mentre Giovanni Allevi non solo ha avuto il grande coraggio di affrontare pubblicamente la sua realtà di malato cronico ma addirittura ha preso il cuore in mano per offrirlo alla gente che lo ascoltava. Non conosco la sua cartella clinica, ma so che il mieloma ha come effetto collaterale lo scoramento, un stato di comprensibile abbattimento psichico. Per quella sua stessa malattia ho perso due cari amici, due cantautori del Folkstudio, Giorgio Lo Cascio (morto a 50 anni) e Corrado Sannucci.
Da autore di bellissime canzoni quali sono state le parole di Allevi che più l’hanno emozionata?
Quel «forse sono riuscito a strappare una manciata di anni alla mia fine e voglio viverli più intensamente possibile» mi risuona ancora in testa. È un messaggio di una potenza incredibile, è un segno di ottimismo che, visto anche da una prospettiva medica, rinfranca. E poi l’elenco dei tanti «doni» concessigli, nonostante la malattia, non sono certo degli antitumorali ma delle vitamine esistenziali sì, e queste possono rafforzare le sue difese e donargli delle energie ignote anche alla Medicina. Un corso di omeopatia mi ha fatto scoprire il senso di quella che viene definita la “forza vitale”. Forse la chiave di volta dell’esistenza sta tutta in questa capacità di riuscire a telecomandare la “forza vitale”. Il problema è rintracciare, dentro di noi, quella pala meccanica che sfrutta al meglio le energie vitali dal fiume che è la nostra vita.
Forse Allevi quella “pala” l’ha trovata?
Lo scopriremo solo vivendo… La sua testimonianza intanto mi ha fatto riflettere su un aspetto terapeutico: la possibilità di organizzare dei reparti ospedalieri per gli adulti con la sua patologia, come quelli dedicati ai bambini affetti dal cancro che vengono curati anche con la clownterapia, con l’ippoterapia e non ultima la musicaterapia.
Ma la musica non è forse il farmaco più potente per chi “vive di musica”?
Sicuramente sì... C’è un’altra frase di Allevi che mi ha colpito, quando ha detto: «I numeri non contano. Ogni individuo è unico irripetibile e a suo modo infinito». Mi ha fatto ripensare al mio primo concerto al Folkstudio, nel ’73: in sala c’era un solo spettatore ad ascoltarmi, e io pregavo che non andasse in bagno, perché a quel punto sarei rimasto da solo... Poi sono venuti i palazzetti con migliaia di spettatori e oggi mi esibisco in teatri medio grandi, ma Allevi mi ha fatto rivedere il volto di quell’unico spettatore solitario, che era rimasto lì per ascoltare un giovane cantautore sconosciuto… I suoi “numeri” sono sempre stati alti e anche nei periodi di bassa, come quelli che ha passato, Giovanni ha dimostrato di possedere una forza morale che lo rende superiore a tutte le malignità umane.
Quelle stesse malignità umane ricordiamo che avevano “ucciso” civilmente una grande cantante come Mia Martini, e oggi si sfogano sui social dove diventano cyberbullismo e body shaming, come quello denunciato dalla rapper BigMama.
In ambiente medico sono delle piaghe di cui parliamo e cerchiamo, per quanto è possibile, di sanare. L’altra medaglia del body shaming però vorrei sottolineare che è questo eccesso di “denudamento” delle cantanti. Nel mondo del pop pare che la regola sia diventata: più è sexy e svestita e maggiore sarà il consenso popolare. Il corpo purtroppo viene valutato molto prima delle doti e delle qualità musicali di un artista. Mi viene da pensare che tanti dei cantanti non proprio attraenti della mia generazione che hanno venduto milioni di dischi, oggi sarebbero al margine di questo edonistico e selettivo showbusiness.
Riflessi di tutto ciò si rintracciano anche sul palco di Sanremo…
Tranne Allevi e il giorno prima il momento dedicato alla memoria del giovane napoletano GiòGiò, non riesco a seguire uno spettacolo in cui la musica è un accessorio messo dentro un grande scatolone, peraltro un po’ vuoto. Non voglio fare il nostalgico, ma al Festival dell’85 a cui presi parte sul palco salirono Zucchero, che arrivò ultimo, Ivan Graziani, Eugenio Finardi, Banco del Mutuo Soccorso, Eros Ramazzotti e tra i non ancora big ricordo Pino Mango e Garbo. Vinsero i Ricchi e Poveri e noi italiani stavamo in un angolo di palcoscenico di tre metri per tre mentre il resto dell’Ariston era a disposizione dei superospiti stranieri. Ricordo i Duran Duran e gli Spandau Ballett, ai quali Pippo Baudo - che rimane il miglior conduttore di sempre – non chiedeva certo di fare il Ballo del qua qua con il cappello da papero in testa…E poi le canzoni erano scritte da due autori al massimo. Oggi ce ne vogliono cinque per fare un brano e su trenta canzoni in gara sono i soliti 5-6 che ne firmano altrettante, e questo mi fa sorgere il sospetto di un monopolio delle case di produzione che si affidano a team specializzati per prodotti preconfezionati.
Locasciulli, lasciamoci con un immagine meno triste di questa…
Allora ripartiamo dall’energia e dall’ottimismo di Giovanni Allevi e dalla sua infinita passione per la musica, augurandogli di scrivere altrettante sinfonie infinite. La mia Buona fortuna la dedico a lui, con tutto il cuore.