giovedì 20 gennaio 2011
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Non può non colpire il contrasto tra il giovanilismo postsessantottino, modello sociale che tenne il campo a lungo nella pubblicistica e nell’opinione pubblica, e la sparizione odierna della figura giovanile dall’immaginario sociale oppure il suo apparire solo come fonte di preoccupazione o icona ludica della moda, dello spettacolo, dell’intrattenimento: il giovane o è disoccupato, disadattato, drogato o è velina o giù di lì.È evidente che tra i due momenti vi è la simmetria di un comune imbarazzo nei confronti della condizione giovanile e del suo posto nel contesto storico-sociale nazionale: allora si trattava di metabolizzare la grande paura della contestazione "idolatrando" la figura giovanile, oggi si cerca di esorcizzarla incastonandola in categorie sociali marginali o laterali. In un caso e nell’altro, la condizione giovanile è avvertita molto più come problema o divagazione che non come risorsa. Ovviamente, per chi non ha perso del tutto il contatto con la realtà – cioè per chi ha un contatto che non sia completamente filtrato dai sistemi della disinformazione nazionale – le cose non stanno così. Il mondo giovanile presenta una gamma amplissima di situazioni e di tipologie umane e culturali, in cui la negatività è più grave e endemica e in cui la positività costruttiva, la buona volontà, l’ingegnosità, la generosità, la capacità aggregativa sono molto superiori e diffuse, rispetto a quanto rappresentato. D’altra parte, è anche vero che il ceto giovanile oggi stenta a trovare le sue forme di autorappresentazione e di comunicazione e quando prende iniziativa pubblica collettiva si segnala per lo più con gesti di esasperata reazione o di opposizione inconcludente.Il problema è dunque l’assenza complessiva del giovane dalla scena pubblica, come protagonista, come modello, come interrogativo: è come se non si sapesse che posto dare al ceto giovanile nel contesto della vita e della storia nazionale, ed è anche come se i giovani non sapessero neppure loro che posto riconoscersi di diritto e costruirsi di fatto.Le analisi psico-socio-economiche, a questo punto, possono dire moltissime cose, evidenziando i tanti aspetti del problema e chiarendo cause e condizioni. Ci possono far capire, ad esempio, quali scelte hanno condotto la politica del Paese a garantire le posizioni acquisite nel passato contro le risorse del futuro; oppure quale sia il fondamento della diffusa sensazione giovanile di non essere oggetto di cura e di investimento da parte della Nazione che pur li ha generati, eccetera. Insomma, possono spiegarci ciò che ha condotto in una situazione in cui è diventato oscuro se e quale eredità avranno in sorte le giovani generazioni.Ma per comprendere il punto cui siamo arrivati abbiamo bisogno di mettere in risalto le categorie antropologiche – nascita, generazione, cura, eredità –, di cui abbiamo fatto uso. Perché sono esse la vera posta in gioco; meglio, dicono tutto ciò da cui si è preteso (e si continua a pretendere) di prescindere nel gestire la vita comune e le grandi questioni sociali. In un’implicita continuità con una sindrome ideologica antiautoritaria, antipaterna, antifamiliare, eccetera, si fa della questione giovanile una questione solo di cronologia, piuttosto che di genesi. Come si parlava negli anni ’60 dello scontro tra generazioni, si parla oggi della loro estraneità; ma continuando a non soppesare il termine "generazione", che prima di indicare quelli che sopravvengono, significa l’azione con cui la vita re-inizia e continua. Con profonda intuizione Hanna Arendt vedeva in ogni autentico agire umano una "nascita" e un "inizio"; come a dire che il nascere/prendere inizio è il senso dell’essere-in-azione dell’uomo e del suo stesso vivere. È qui che tocchiamo il punto nevralgico di tutta la questione, che ha al suo centro una visione antropologica dei cui limiti non smettiamo ancora di pagare il prezzo e per la cui revisione non sembriamo ancora davvero disponibili. La questione giovanile, infatti, è la spia non solo di scelte socio-economico entropiche (che cioè legano risorse umane invece di liberarle), ma è ancor più indice di un’idea di uomo che ha raggiunto i suoi limiti estremi, divenendo sterile e oppressiva. Sulla vita nascente e giovane si scarica oggi il peso definitivo di quell’individualismo moderno la cui ideologia non consiste innanzitutto nell’idea dell’individuo separato – che ne è piuttosto conseguenza – ma nell’idea dell’identità individuale che non deve nulla a nessuno, come se uno nascesse da se stesso e non fosse responsabile che nei confronti di se stesso. Un self-made man in senso radicale, che oggi rivive nelle forme dell’autodeterminazione radicale nei confronti della vita e della morte, dell’identità sessuale e delle relazioni affettive, della stessa configurazione genetica nelle prospettive del post-umanesimo, eccetera, presentate come forme di grande innovazione libertaria, mentre costituiscono solo un’esasperata continuazione di un’idea antropologica consunta, giunta alla fase estrema del narcisismo o, come qualcuno dice, del "nar-cinismo".L’idea individualista vive dell’ipotesi di un autopossesso irreale, che prescinde da quella relazione generativa che è anche struttura e condizione permanente per cui l’umano possa apparire, crescere, prender forma e trasmettersi a sua volta. Così nell’idolatria o nella trascuratezza della condizione giovanile, cioè nell’incapacità di curare e promuovere veramente tutti i luoghi genetici delle risorse umane del Paese (matrimonio e famiglia, nascita ed equilibrio demografico, educazione e formazione, scuola e università, arti liberali e alta cultura) si esprime al peggio una concezione che non vede nelle forme generative dell’umano il contenuto più prezioso della tradizione nazionale, della vita sociale, del lavoro politico.La condizione giovanile aiuta a capire, dunque, che oggi, dentro i molti problemi sociali e istituzionali, è in gioco un intero paradigma antropologico: quello che la modernità ci ha consegnato con l’individualismo, la cui legge è l’auto-conservazione, ed eventualmente – purché sia "auto" – anche l’auto-distruzione; e quello alternativo, il paradigma dell’identità generativa, la cui legge è la relazione feconda di umanità (e, perciò, anche di figli e di opere), che ha il senso della provenienza e guarda avanti, perché sa che la vita si conserva solo trasmettendosi, generando e rigenerando l’umano in tutte le sue dimensioni.Troppi segni ci dicono che noi non siamo ancora pronti per un convinto passaggio a una nuova sensibilità antropologica, ma la storia delle cose e quella degli uomini renderà sempre più manifesto che questa è l’unica via di uscita dalla "gabbia di ferro" di un mondo sempre più organizzato, ma sempre meno partecipe.
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