Ma proprio il fatto di essere di fronte ad acque "fossili", avvertono gli autori dello studio, pone alcuni limiti: da una parte la grande profondità dei giacimenti (tra i 100 e i 250 metri sotto terra) che rende difficile e costosa l’estrazione, dall’altra il tasso bassissimo o nullo di ricarica delle riserve, che richiede un approccio sostenibile allo sfruttamento. Come mostrano le mappe, tuttavia, la distribuzione e le caratteristiche dei giacimenti sotterranei non sono uniformi nel continente: oltre a quello sotto il Sahara – che Gheddafi aveva progettato di sfruttare con ciclopiche opere idriche, rimaste in sospeso dopo la sua caduta –, un altro grande bacino giace tra la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana, mentre un terzo è più a sud, a cavallo di Namibia, Botswana, Angola e Zambia. In generale, i ricercatori affermano che «per molti Paesi africani, pozzi opportunamente collocati e costruiti in modo appropriato possono permettere il pompaggio manuale e garantire riserve sufficienti, sebbene con variazioni periodiche della ricarica delle riserve». Decisamente sconsigliata, invece, l’estrazione su larga scala, per esempio per far fronte alla domanda idrica delle città in rapida crescita, che rischierebbe di impoverire i bacini in modo irrimediabile. Una corsa all’acqua sotterranea, meno inquinata e meno dipendente dalla stagionalità e dai cambiamenti climatici superficiali, che punti alla commercializzazione industriale sarebbe quindi insostenibile e rischierebbe di dilapidare rapidamente questo inaspettato patrimonio. Senza contare che grandi perforazioni potrebbero avere effetti collaterali imprevisti. Le prospettive sono invece decisamente positive per quanto riguarda il consumo locale comunitario. Attualmente, il mancato accesso ad acqua pulita (oltre alla carenza di servizi igienici adeguati) rappresenta la causa principale di morte per i bambini dell’Africa subsahariana, perché è alla base di varie malattie tra cui le epidemie di diarrea, tuttora letali. Non è difficile comprendere, dunque, gli effetti potenzialmente rivoluzionari dei dati resi noti dagli scienziati inglesi. Anche se, come ha avvisato MacDonald, «la disponibilità di acqua in sé non è sufficiente a risolvere il problema della sete: è necessario che siano compiuti investimenti per scavare i pozzi e ancor prima che a livello regionale e locale si proceda a una mappatura più precisa dei giacimenti sotterranei». Ancora una volta, la volontà politica dei singoli Stati è chiamata in causa per non perdere questa ennesima, enorme opportunità.
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