Quando si parla di Africa, la questione del cibo e dell’alimentazione assume, agli occhi dell’Europa, le sembianze drammatiche (e mediatiche) della «carestia» e quelle salvifiche (e altrettanto spettacolarizzate) degli aiuti umanitari a breve termine (cibo inviato d’urgenza) e del sostegno allo sviluppo di medio termine (contributi alla ripresa economica delle famiglie più vulnerabili).Agli occhi dell’Africa e delle popolazioni africane le cose sono più complesse. Le crisi alimentari del Sahel, per esempio, ricorrono spesso, ma in forme diversissime, e raramente si presentano così come le presentano i media occidentali. Abbiamo visto tutti, in occasione della carestia che ha colpito il Niger nel 2005, le immagini della terra attraversata dalle crepe dovute alla siccità o i volti di bambini scheletrici e moribondi a causa della malnutrizione. Ma in Niger quelle immagini non significano affatto «carestia». Fotografie di quel genere si potrebbero scattare anche in un’annata di buoni raccolti. La crepe solcano il terreno ogni anno durante la stagione secca. E la malnutrizione infantile è cronica e riguarda anche famiglie non particolarmente vulnerabili dal punto di vista economico. Analogamente, se per gli occidentali la malnutrizione infantile è il simbolo stesso della carestia, per gli africani lo stesso fenomeno assume tutt’altro aspetto, deriva da una molteplicità di cause, non viene pensato come una «patologia» e non deriva in modo diretto dalla mancanza di cibo, anche se è ovvio che la mancanza di cibo lo aggrava. Tant’è che nel 2005 i nigerini provenienti dal mondo rurale non si riversavano affatto nelle città, come era accaduto durante le carestie del 1973 e del 1984. Piuttosto denunciavano gli effetti devastanti di un carovita scandaloso, che portava i prezzi dei cereali a livelli insostenibili, il tutto in concomitanza con la penuria di riserve che è consueta nel momento in cui i granai si svuotano del vecchio raccolto e attendono ancora di riempirsi del nuovo.Far fronte a queste crisi periodiche significa per i nigerini affidarsi a minute tattiche di adattamento, una sorta di arte dell’arrangiarsi che consente di integrare il reddito abituale e di trovare il necessario per vivere indipendentemente da qualsiasi aiuto umanitario : migrazioni temporanee verso i paesi costieri, piccoli impieghi agricoli occasionali, attività commerciali o artigianali più o meno improvvisate, prestiti ottenuti all’interno della famiglia allargata o presso i notabili del luogo, restrizioni autoimposte nelle razioni quotidiane di cibo. A tutto ciò si aggiunge l’invio di denaro da parte dei parenti emigrati all’estero, che costituisce l’aiuto di gran lunga più sostanzioso in questi frangenti, ben più consistente di tutti i nostri programmi di aiuto alimentare. Ma quali giornali occidentali hanno parlato di tutto questo?D’altra parte quando arrivano gli aiuti umanitari occidentali (com’è avvenuto anche nel 2005 in Niger), gli aiuti stessi diventano oggetto di infiniti malintesi : anzitutto sulle modalità della distribuzione delle derrate, che portano con sé immancabili sospetti di favoritismi e continui tentativi di appropriazione ; in seconda battuta sul loro utilizzo, dato che spesso gli aiuti vengono rivenduti e il ricavato viene speso per procacciarsi beni diversi dal cibo. Sono le reazioni tipiche di un contesto «assistenzialista», in cui gli aiuti esterni arrivano a rappresentare il 50% del budget complessivo dello stato, e ciascuno ritiene di aver diritto alla sua parte di quella manna piovuta dal cielo, e si sente in dovere di fare tutto il possibile per beneficiarne. È interessante, in questo senso, che negli ultimi anni le istituzioni umanitarie europee o americane, anziché distribuire gli aiuti in natura (riso, eccetera), hanno scelto di operare trasferimenti di denaro, dando liquidità direttamente alle famiglie più vulnerabili perché possano approvvigionarsi sul mercato locale. La stessa logica di trasferimento monetario è stata adottata dalla Banca mondiale in altri ambiti, non per gli aiuti d’urgenza ma per il sostegno allo sviluppo di medio termine, nel tentativo di salvare le famiglie più fragili dalla trappola in cui la povertà le trascinerebbe anno dopo anno. Ma anche in questo caso le reazioni locali sono imprevedibili. Le regole di distribuzione degli aiuti che vengono imposte dalle istituzioni occidentali contraddicono infatti le abitudini locali e le norme tradizionali. Il denaro viene consegnato alle donne, ma è in genere l’uomo a occuparsi di acquistare il cibo per tutta la famiglia. Così le mogli passano quei soldi ai mariti non appena l’agente dell’Ong ha voltato le spalle. Ancora: molti programmi di trasferimento di denaro vogliono porsi come un’alternativa alla migrazione, ma spesso le somme ricevute in loco vengono utilizzate proprio per rimpolpare il piccolo capitale necessario a partire.È chiaro, quindi, che di fronte al problema più che mai concreto del deficit alimentare quasi permanente in cui versa il Sahel, i meccanismi di aiuto che mirano a soluzioni immediate innescano problemi ulteriori : fenomeni di dipendenza, contraddizioni tra norme occidentali e norme locali, reiterati tentativi di usare le norme locali per aggirare le regole occidentali. In un simile scenario, gli interventi dovranno tenere conto di questo livello di complessità, per esempio favorendo l’innalzamento della produttività agricola, la creazione di posti di lavoro non agricolo in territorio rurale, la progettazione di un insieme di procedure di accompagnamento dell’esodo dalle campagne verso le città, nonché la creazione di nuovi posti di lavoro in contesto urbano. Il rischio, altrimenti, è che la locale arte di arrangiarsi si concentri sempre più sull’obiettivo di aggirare i progetti d’aiuto occidentali e di sfruttarli al solo scopo di mettere le mani su quella manna piovuta dal cielo.