domenica 4 luglio 2010
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Indifferenza e irritazione. Le celebrazioni per il cinquantesimo di indipendenza delle ex colonie africane stanno suscitando sentimenti opposti. Nella migliore delle ipotesi è indifferenza per cerimonie piene di retorica e vuote di significato. Ma anche un certo malumore. La ricorrenza, infatti, non solo non è servita, come molti speravano, a fare un bilancio serio di questi cinquant’anni di indipendenza (o presunta tale), ma si è spesso risolta in mere celebrazioni ad uso e consumo del potere. A ciò si aggiunge la decisione delle ex colonie francesi di far sfilare i propri militari in occasione della Festa della Repubblica di Francia, il 14 luglio a Parigi. Decisione che non è piaciuta a moltissimi africani, non solo perché il presidente francese Nicolas Sarkozy ha, dal canto suo, declinato tutti gli inviti africani, ma soprattutto perché, fanno notare i più critici, in quella occasione il colonizzatore celebra la fine della sua stessa oppressione. Forse era meglio evitare… Sta di fatto che la ricorrenza del cinquantenario delle indipendenze è andata sostanzialmente sprecata, almeno come occasione di riflessione su un continente che fatica a inserirsi nei processi di globalizzazione, giocando un ruolo alla pari con gli altri soggetti mondiali. Eppure, nel cuore di questi processi l’Africa c’è, eccome. Ma più come fornitrice di materie prime che come protagonista del proprio sviluppo; più come nuova frontiera per attingere acque e terre arabili che come partner economico, commerciale e politico su scala internazionale. Certo, parlare di Africa è fuorviante, essendoci forti differenze da Paese a Paese. Tuttavia alcune linea di tendenza solcano trasversalmente l’intero continente. La prima riguarda il sensibile rallentamento dello sviluppo in tutta l’Africa, come conseguenza della crisi mondiale, ma anche a causa di un’economia poco diversificata, incentrata per l’80 per cento sulle esportazioni di petrolio, materie prime e prodotti agricoli. La crescita è passata da un tasso annuo attorno al 6 per cento nel biennio 2006-2008 (con picchi dell’8% per i Paesi produttori di idrocarburi) al 2,5% del 2009. Con prospettive di crescita stimate attorno al 4,5% nel 2010 e al 5,2 nel 2011. Sta di fatto che nel rapporto sullo sviluppo umano, stilato dall’Undp, gran parte dell’Africa si colloca ancora oggi in fondo alla classifica. Sono, infatti, africani 22 dei 24 Paesi a più basso sviluppo (gli altri due sono Afghanistan e Timor Est), ovvero circa metà dell’Africa subsahariana. Ma la crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni è solo una delle ragioni: leggi commerciali sfavorevoli, sfruttamento iniquo delle materie prime, interessi economici e finanziari di governi e imprese occidentali, riduzione dei fondi della cooperazione; ma anche persistente corruzione, malgoverno, mancanza di infrastrutture, sistemi economici, educativi e sanitari allo sfascio... Sta di fatto che oggi povertà e fame sono una realtà quotidiana e drammatica in molte parti dell’Africa. E le nuove generazioni – il 70% degli africani ha meno di 30 anni –, invece di rappresentare un potenziale di futuro, vanno ad alimentare l’enorme massa di migranti, che cercano di raggiungere l’Europa o il Nord America. In questo scenario, si consolida la presenza della Cina con interventi a 360 gradi – accesso alle materie prime, ma anche prestiti preferenziali ai Paesi africani per 10 miliardi di dollari, costruzione di infrastrutture ma anche vendita di manufatti – a detrimento soprattutto delle ex potenze coloniali, che tuttavia continuano a contendersi le risorse minerarie africane. A ciò va ad aggiungersi il (relativamente) nuovo interesse dei Paesi del Golfo Persico – e non solo – per le terre agricole africane, al fine di approvvigionarsi in prodotti alimentari e scongiurare pericoli di crisi e innalzamento dei prezzi. Un paradosso in un continente dove, secondo la Banca Mondiale, il 90% della terra agricola è disponibile, ma i Paesi maggiormente interessati, come Sudan, Etiopia, Mali o Madagascar, non riescono a garantire la sicurezza alimentare alla propria popolazione. Nuovi scenari di accesso agli idrocarburi si stanno invece aprendo nella regione dei Grandi Laghi, già fortemente destabilizzata proprio a causa dello sfruttamento di materie prime, specialmente nelle regioni congolesi del Nord e Sud Kivu, come l’oro, il coltan o la cassiterite. Ora si parla anche di petrolio e gas nel Lago Alberto, di cui l’Uganda ha iniziato a vendere le concessione. In questa zona, infatti, sarebbe stato scoperto uno dei più importati giacimenti di petrolio sulla terra ferma. E sono già pronte a contenderselo la compagnia britannica Tullow Oil, la francese Total e la cinese Cnooc. Altri Paesi, tuttavia, si stanno affacciando in maniera sempre più importante sul continente africano e sono principalmente India e Brasile. La prima, bisognosa anch’essa di materie prime, è anche interessata agli investimenti: l’ultimo, un progetto di raffinazione in Angola, l’altro gigante petrolifero africano, insieme alla Nigeria. Il Brasile, dal canto suo, moltiplica gli attestati di solidarietà con l’Africa, cercando di spostare l’asse politico e geo-strategico mondiale dal G7 al G20, coinvolgendo i Paesi in via di sviluppo. Resta il fatto che l’Africa è tuttora sotto-rappresentata in tutte le istanze mondiali che contano. E spesso, nonostante i cinquant’anni di indipendenza, sono ancora gli altri che decidono del suo destino.
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