Nasce da un dialogo durato 7 anni con un gruppo di famiglie adottive o affidatarie, raccolte nell’associazione «Famiglie per l’Accoglienza», il nuovo libro di monsignor Massimo Camisasca (nella foto) «Benvenuto a casa. Le ragioni dell’accoglienza» (San Paolo, pp. 96, euro 7,90, prefazione di Antonia Arslan), da cui riprendiamo in questa pagina un capitolo. «Nel nostro tempo in cui tanto si dibatte attorno alla convivenza fra uomini e donne di diverse culture, etnie, lingue e religioni, queste pagine vogliono offrire un itinerario semplice di accoglienza dell’altro»; il testo contiene estratti di lettere scambiate dal vescovo di Reggio Emilia con le famiglie affidatarie.
Quando scopro l’amore da cui vengo, di cui sono fatto e che mi attende, vivo una grande sorpresa. Io non c’ero e ora ci sono. Sono stato voluto, sono stato amato da sempre. Sono stato portato alla vita, attraverso i miei genitori, da un Essere personale e misterioso che ha voluto farmi passare dal nulla all’esistenza. Egli è colui che chiama all’esistenza ciò che non è (cfr. Rm 4,17). Non solo non c’ero e ora ci sono, ma in ogni istante continuo ad essere mantenuto nella vita, non ricado nella polvere. È l’inizio della speranza che può rinnovare ogni mia giornata e quelle degli altri.Ecco il senso della parola positività. Quando il mio cuore si apre alla scoperta rinnovata di essere stato voluto e amato e di esserlo tuttora, riesco a vedere altri segni di questa positività dell’esistenza, pur in mezzo a tante fatiche, dolori, confusione, peccati. Ada Negri, in una sua poesia, scriveva: «Tutto fu bene, anche il mio male» («Atto d’amore», in Mia giovinezza, Rizzoli 1995). Una tale affermazione può essere ripugnante se non porta dentro di sé il sangue, la drammaticità della nostra esistenza di uomini. La scoperta della positività della vita non cancella il dolore, l’errore, ma ci permette di avere un punto preciso di riferimento per attraversare anche ciò che ci sembra più pesante e addirittura contraddittorio. Bene e male sono sempre inestricabilmente congiunti nelle ore del nostro pellegrinaggio sulla terra. Perché il bene, per affermarsi, porta dentro di sé anche il male? È questa, forse, la domanda più drammatica presente nella storia del mondo. Una questione che l’uomo non può eludere. Egli cerca di dimenticarla nella superficialità con cui censura la drammaticità continua che le ore portano con sé. Eppure tale domanda ritorna sempre. O l’esistenza non ha nessun senso, nasce da una casualità illogica in cui si alternano luci ed ombre, vita e morte, oppure ha un significato, ed esso custodisce dentro di sé la gioia e il dolore, il sangue e la passione, l’energia e la fatica.Riporto un breve testo, dal diario di un mio amico. È un padre che scrive alla figlia di 7 anni, adottata: «Cara Vlada, oggi io e te per la prima volta abbiamo fatto un discorso sulla tua mamma russa, quando, camminando mano nella mano, mi hai chiesto a bruciapelo: "Papà, perché quella mamma ci ha abbandonati?". Ti ho risposto che questa cosa io non la so, ma che ci sono mamme che non se la sentono, o hanno paura a crescere i loro bambini. Mi hai chiesto: "Forse era cattiva?". "Io non credo – ti ho risposto –, solo non se l’è sentita di crescervi, e vi ha lasciati in un istituto, dove noi vi abbiamo incontrati». Mi hai chiesto se è morta, ma io credo proprio che non lo sia, ti ho risposto, è viva. "È una nonna, adesso?". "No, è una mamma, forse giovane, ma io non l’ho mai conosciuta". "Sarà un po’ triste, adesso, senza i suoi bambini?". "Credo di sì, che sia un po’ triste, ma forse sarà anche un po’ contenta di sapere che voi avete trovato un papà e una mamma che vi vogliono tantissimo bene". "Allora la conoscerò quando vado in cielo!". "Credo proprio di sì – ti ho risposto –: ci ritroveremo tutti in cielo!"». Mi scrive ancora una coppia che vive l’esperienza dell’accoglienza: «Sentiamo forte il calore di un’esperienza d’affido che ancora stiamo in qualche modo vivendo. Si tratta di un ragazzo venuto da noi a 13 anni, proveniente da una famiglia in dissesto, col padre separato e la madre dentro e fuori da cliniche psichiatriche. Un ragazzino con forti ed evidenti vuoti interiori, totalmente chiuso nella difesa di una presunta autonomia. L’incontro con lui ci ha insegnato la necessità di uscire dai nostri schemi. Il ragazzo, dopo meno di tre anni, è entrato in crisi di insofferenza lasciando la nostra famiglia abbastanza dolorosamente. Ripreso dai servizi sociali, non ha voluto avere più alcun rapporto con noi per più di due anni. Un fallimento? Improvvisamente, dopo un lungo silenzio, ha chiesto di tornare da noi. Così è ripartito un diverso rapporto che dura ancora. Anzi, è cresciuto in diverse forme di accoglienza che ormai comprendono anche la madre naturale».