«Ho ricevuto il mio invito alla festa di questo mondo; la mia vita è stata benedetta. I miei occhi hanno veduto, le mie orecchie hanno ascoltato. In questa festa dovevo solo suonare il mio strumento musicale: ho eseguito come meglio potevo la parte che mi era stata assegnata. Ora ti chiedo, Signore: è venuto il momento di entrare e di vedere il tuo volto?». Queste parole di Rabindranath Tagore, Nobel per la letteratura del 1913, cantore per eccellenza dell’identità bengalese, potrebbero essere le stesse con cui si è congedato ieri dal mondo padre Marino Rigon, missionario saveriano, morto a Vicenza all’età di 92 anni, dopo più di cinquanta passati in Bangladesh.
Se c’è uno che ha fatto conoscere in Italia il padre della patria letterario del Bangladesh - terzo Paese musulmano al mondo, che tra poche settimane papa Francesco visiterà - questi è proprio padre Rigon, che di Tagore ha tradotto innumerevoli opere. Era il lontano 1964 quando padre Marino presentò il manoscritto con la sua traduzione, dall’originale lingua bengoli, delle liriche di Ghitangioli a Ugo Guanda, il quale lo diede poi alle stampe: la prima di una fortunata serie di opere tradotte da Rigon. Non solo: fu proprio il saveriano a studiare a fondo l’opera del grande poeta e mistico, cui si devono le parole dell’inno nazionale del Bangladesh («O mio Bengala dorato, ti voglio bene!»), rintracciando tutta una serie di rimandi cristologici che confluirono nell’importante opera Il Cristo secondo Tagore.
Padre Rigon è stato un uomo di cultura, molto apprezzato e spesso cercato dai media in Bangladesh, ma soprattutto un grande missione Originario di Villaverla (Vicenza), dov’era nato nel 1925, figlio di una maestra e di un contadino, entrò nelle file dei saveriani nel 1938, all’età di 13 anni. Ordinato prete nel 1951, il giovane venne assegnato, dopo un breve periodo in Italia, all’allora Pakistan orientale, terra di monsoni e di miseria dilagante. Quando il Bangladesh diventa indipendente dal Pakistan occidentale, nel 1971, padre Marino condivide con la sua gente i rischi del conflitto e della violenza.
Poi, finita la guerra, si adopera per costruire scuole e ostelli per i più poveri, cooperative popolari per dare lavoro alle donne. Il fiore all’occhiello saranno i centri di cucito e ricamo che valorizzano l’antica arte del Nokshi Khanta, preziosi arazzi ottenuti con migliaia di piccolissimi punti. Tranne alcuni breve ritorni in patria e un soggiorno in Canada per conseguire una laurea in sociologia, padre Marino ha consumato la sua esistenza nel sud-ovest del Bengala, ai margini della foresta salgariana del Sunderborn.