sabato 17 luglio 2010
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Tra i casi letterari degli ultimi anni riveste un posto di primissimo rilievo La masseria delle allodole di Antonia Arslan; l’autrice, per anni docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Padova, ha attinto alle tragiche memorie famigliari per raccontare il genocidio del «mite e fantasticante» popolo armeno del 1915. Dal romanzo è stato tratto l’omonimo film (2007) dei fratelli Taviani, mentre lo scorso anno è uscito il sequel, intitolato La strada di Smirne, che riallaccia i destini dei personaggi incontrati nella «Masseria» prima che le loro vite siano ulteriormente sconvolte dal grande incendio di Smirne del 1922.Quando ha iniziato a ricostruire il passato armeno?«Con il passare degli anni è iniziato a emergere qualcosa rimasto nascosto molto a fondo nella mia anima. Da tempo, prima di scrivere la "Masseria", avevo iniziato a raccogliere ogni genere di informazioni sull’Armenia. Era una parte di me con cui dovevo fare i conti. La vocazione alla scrittura in questo caso si aprì attraverso due canali molto precisi. Sentii dei bellissimi cori in concerto a Venezia: sul programma scrissi una poesia intitolata Elegia armena. Sentivo che c’era qualcosa che doveva essere espresso e io ero molto in ritardo. Avevo perso molto tempo per la strada. L’altro movente per la mia scrittura fu l’incontro con la grande poesia di Daniel Varujan. Tentai l’impresa di tradurlo non sapendo quasi nulla di armeno. Fu come un ordine interno. Immergermi nella poesia di Varujan mi ha aperto la mente: quello che era solo un ricordo famigliare, memoria infantile, cibo armeno, è diventato un mondo, la storia di un mondo perduto; così è scattata la visione del "paese perduto", come lo chiamano loro».Dopo la «Masseria» e «La strada di Smirne» il progetto armeno è concluso?«No, ci sarà un terzo libro. I romanzi sono legati tra di loro e il secondo ingloba la storia del primo. In entrambi c’è un prologo che racconta di un nonno e di una bambina. Questa bambina è la chiave di tutto. I miei romanzi sono storie viste con gli occhi della bambina. È la bambina che ha conservato dentro di sé tutti questi racconti. Sarà lei la protagonista del terzo libro». Qual è la sua visione della storia? Qual è la sua visione del male?«Richiamerei la ferita sempre aperta per ogni armeno. Anch’io avevo questa ferita, anche se ho tentato di negarlo per anni. È un fatto che tocchi con mano quando incontri le persone di un popolo martirizzato per secoli. È una storia che si segue anno dopo anno, secolo dopo secolo, di provvisorie rinascite, di invasioni, di tormenti, di rapimenti, di continui patetici tentativi di ricominciare. Eppure, non sono pessimista. Il male alla fine non vince, pur in tanto orrore. I poveri armeni sanno che ritroveranno la patria perduta in cielo. Per loro è una cosa molto concreta, fisica. Con profumi e colori… Non sono solo sogni… è per loro un’immagine molto concreta e visiva. Dicono: "Se non c’è più erba qui, la ritroveremo dall’altra parte". Io avevo dentro tutto questo e non lo sapevo. Iniziai a interessarmi alla Shoah ebraica da quando avevo 9 anni: ho saputo prima degli ebrei e dopo degli armeni». Cosa pensa della religione islamica?«Non ho risposte preconfezionate, né risposte che non sono disposta a cambiare. L’islam non è una realtà unitaria, come non lo è il cristianesimo. Anche all’interno della loro ortodossia c’è varietà. Per esempio, ci sono gli Aleviti, che sono una cospicua minoranza in Turchia, e che sono stati molto perseguitati. L’irenismo dell’"abbracciamoci tutti" non è praticabile davvero, e sta anche passando di moda. La concretezza dei fatti ci mostra come esso venga interpretato come cedimento totale. Ma prendere la posizione diametralmente opposta è altrettanto suicida. D’altronde, è difficile trovare interlocutori credibili. Penso che è necessario avere una posizione condivisa di confronto fermo su principi su cui non cedere, ma che allo stesso tempo non bisogna farsi condizionare da preconcetti o pregiudizi. C’è nel dna dell’islamismo la percezione di essere "la" religione, quella superiore, di cui il cristianesimo è una tappa; inevitabilmente il cristiano è visto come uno che farebbe bene a convertirsi. Ma oggi, essi vedono in noi una situazione degenerata. Del resto, la scristianizzazione dell’Europa è abbastanza evidente». Come commenta la morte di monsignor Padovese?«È stato un fatto orrendo. Quanto ci vorrà per capire che il filo di sangue che collega tutti gli assassini di religiosi o di esponenti delle minoranze in Turchia non può essere addebitato a singoli fanatici squilibrati? Si è fatto credere che l’assassinio di don Santoro sia stata opera di un giovane disturbato; il massacro nel 2007 di tre redattori di una casa editrice protestante presbiteriana di Malatya è stato dimenticato... La stessa magistratura in Turchia indaga sulla famigerata gang Ergenekon sulla quale non è stato espresso un giudizio definitivo. Il processo per l’assassinio del giornalista Hrant Dink è ancora in corso e uno dei suoi difensori si è impiccato pochi giorni fa.  Non si capisce perché l’Occidente non veda la gravità della situazione delle minoranze che hanno una vita grama in tutti i sensi. C’è un atteggiamento persecutorio, a volte esibito a volte nascosto, che in tutta la Turchia rende difficile la vita anche sul piano burocratico: non puoi fare la carriera acccademica, non puoi entrare nell’amministrazione statale, né nelle forze armate, sei in tutto e per tutto un cittadino di seconda categoria. La morte di mons. Padovese è stato l’ultimo atto di questo orrore».Che cosa riferiscono i suoi contatti in Turchia?«I miei amici percepiscono una grande paura. Ogni volta che si celebra la Messa c’è un soldato fuori dalla porta. Ci sono dei musulmani che si convertono, ma di nascosto, copertissimi, senza dirlo, con forme di battesimo segreto».
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