Wisława Szymborska nel 1984 - Joanna Helander
Cent’anni fa a Kórnik, in Polonia, nasceva Wisława Szymborska, poetessa, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996. Un giorno le chiesero perché scrivesse poesia e disse: «Questo non lo so». Una risposta che in un certo senso è la summa del suo mandato artistico, per due ragioni: la prima ha a che fare con la sua profonda curiosità: «Ieri mi sono comportata male nel cosmo. Ho passato tutto il giorno senza fare domande», ma anche: «È persistere nel non sapere qualcosa di importante». La seconda ha a che fare con la meno nota, ma pervasiva, ironia che la caratterizzava: «Qui parla una poetessa di Cracovia e dintorni», recitava la sua segreteria telefonica. Un centenario è un’occasione per celebrare e riscoprire un’opera, un’artista, a partire da alcuni snodi biografici, che segnano un prima e un dopo: nel 1945 la prima poesia, Cerco la parola, nel 1952 la prima raccolta, Per questo viviamo, nel 1996 il Nobel – anche detto “tragedia di Stoccolma” per la volontà di restare persona e non diventare personaggio – e nel 1997 lascia un bilocale per un trilocale. Potrebbe sembrare una poesia, invece è il tempo psicologico che, come diceva il Montale di Auto da fé, non sempre coincide con quello cronologico; lei infatti scriveva: «Quando pronuncio la parola Futuro la prima sillaba va già nel passato». Tutte queste piccole cose, allora, diventano grandi nello sguardo di chi sa osservare, perché «non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale». Attimo è, in effetti, la parola secondo la quale per Szymborska potrebbe intitolarsi ogni poesia.
Questo potrebbe essere il modo in cui è stata concepita la mostra monografica “Wisława Szymborska. La gioia di scrivere”, titolo che si lega a una delle sue poesie più famose. La mostra, curata da Sergio Maifredi con la consulenza scientifica di Andrea Ceccherelli e Luigi Marinelli, è organizzata dal Comune di Genova e prodotta dal Teatro Pubblico Ligure, e sarà visitabile al Museo d’arte contemporanea Villa Croce fino al 3 settembre, con allestimento scenografico di Michał Jandura. Ogni stanza è un percorso con il titolo di una sua poesia e l’intero museo è stato concepito da Maifredi come un viaggio in una vita e un universo creativo abitato non solo da poesie, ma anche da collage e opere grafiche (Szymborska ha frequentato le avanguardie, era amica di Kantor, e fin da giovane si è cimentata nel mondo dell’illustrazione), mondi alimentati l’un l’altro che rispondono alla domanda: come si fa una mostra di poesia? Come uno spettacolo, un grande collage, con poesie sparse in alto, in basso, vicino a interruttori, lungo le scale, dietro a finestre (100 in totale, come gli anni che ci separano dalla sua nascita), ma anche con foto (di Joanna Helander, Adam Golec e Andre Zak), testi, video, appunti, disegni, taccuini, lettere.
L’altra domanda è: perché Genova? Perché è una città a cui Szymborska è stata legata da amicizie e affinità, nonché la città in cui nel 1961 l’editore Silva pubblica Poeti polacchi contemporanei a cura di Carlo Verdiani, dove escono sue sette poesie, trentacinque anni prima del Nobel. La grande sorpresa della mostra, poi, sono i dieci componimenti inediti appositamente tradotti in italiano. Sono testi risalenti agli anni ‘50 e ‘60, che mostrano analogie con alcune delle sue poesie più celebri. Per esempio, in Conversazione scrive: «E il nostro amore? Cosa ne sarà? […] Conosco persone dal cuore ormai spento / che però dicono: stiamo benissimo / e ridono ma in realtà mentono. / Nulla può mai restare uguale a prima. […] Qual è il futuro che ci attende allora? / Sarà più buio o più chiaro? Un tormento / […] La mia immaginazione qui si arresta».
Al tempo stesso però la mostra è anche quella delle sue passioni del quotidiano, come la divertente scimmia portafortuna a cui è affezionata e il cuore pulsante della mostra: i collage, ovvero la dimensione più conviviale della creatività, realizzati con diverse combinazioni di parole e immagini montati con un’arguzia che oggi sarebbe chiamata “meme”. «Vivete più semplicemente», ne recita uno in cui un uomo è intrecciato a un fiocco. D’altra parte lei diceva che «la poesia comincia dove finisce l’ovvietà». Su questa frase Genova va incontro alla Szymborska con le parole di De André: «Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra».