In Fine corsa. La crisi del cristianesimo come religione confessionale (Edizioni Dehoniane Bologna, pp. 270, euro 23) Luca Diotallevi sottolinea che il cristianesimo ha perso il suo carattere eversivo e che ha fondato una politica religiosa di matrice statuale. Dunque, la 'fine' del confessionalismo è un bene per la natura più autentica della fede cristiana?
«Già Lutero e altri con lui avevano sostituito la teoria della due spade (Chiesa e Impero) con quello dei due Regni: lo Stato si occupa dell’al di qua, la Chiesa dell’al di là. Per cui i cristiani erano necessariamente sottoposti al sovrano. Questa situazione poteva avere un suo senso fino all’Ottocento, ma non con la crisi attuale dello Stato. Tanto più che in campo cattolico già il movimento laicale di inizio Novecento, poi quello liturgico, quindi il Concilio Vaticano II e il pensiero di Joseph Ratzinger ci hanno spinto su altre sponde. Del resto la laicità assoluta giacobina non era così distante dalla politica religiosa austroungarica o dalla repressione sovietica: Teresa e Giuseppe usavano il cristia- nesimo rispettandolo, i giacobini non lo rispettavano e lo sostituirono, l’Unione sovietica lo sostituì perseguitandolo e rimpiazzandolo con una propria religione, l’ateismo».
Cosa permette questa fine del confessionalismo?
«Per dirla con parole bibliche, ci concede di recuperare l’altezza, la larghezza, la profondità del cristianesimo. Ovvero scoprire, alla scuola di De Lubac, Von Balthasar, Montini, che il cristianesimo non è un tappare i buchi della modernità. Significa, in definitiva, la differenza tra don Abbondio e fra Cristoforo. O, per dirla con le parole di Pino Colombo, fare teologia anche nel sociale».
In quali aspetti della società contemporanea il cristianesimo può recuperare vitalità?
«Pensiamo al Duc in Altum di Giovanni Paolo II. Purtroppo lo si era interpretato con l’idea: 'Siamo forti, andiamo avanti'. E invece l’invito di papa Wojtyla costituiva l’eco dell’indicazione di Gesù a Pietro: prendere il largo verso nuove rotte, smuovere l’intonaco della Chiesa senza perdere la struttura. In sintesi, il recupero della libertà dentro i confini stessi del cristianesimo ».
Per anni (si legge nel suo libro) si è pensato che Italia, Irlanda, Polonia e per certi veri Stati Uniti fossero l’eccezione nel mondo contemporaneo, Paesi in cui 'più modernità' non voleva dire 'più marginalizzazione' del dato religioso.
«I Paesi che lei cita hanno conosciuto una certa resistenza ai processi di secolarizzazione. Ora che assistiamo a un ritorno del religioso non cristiano siamo impreparati a riscoprire come il cristianesimo abbia la capacità e la fecondità di impattare su tutte le dimensioni della vita, certamente non nella forma dell’integralismo, ma in quella della libertà. Per cui di fronte al new age oppure alla low intensity religion (quella che predilige recarsi nei santuari mariani piuttosto che vivere l’esperienza cristiana comunitaria) facciamo fatica ad avere una proposta cristiana che non sia liofilizzata. Il compito vero è quello di allargare il campo della fede in maniera tale che la fede non si riduca a devozione, ma che comprenda tutte le sfere della vita personale e sociale, rifuggendo la pratica integrista, ma vivendo nella libertà. Questo è un evento che segna un grande passaggio: in questi anni si chiude una lunga parentesi che ha ridotto le potenzialità del cristianesimo».
Per lei la fine del confessionalismo sigilla anche il tramonto del principio territoriale delle religioni, quel ' cuis regio, eius et religio' stabilito a Westfalia al termine delle guerre di religione che insanguinarono l’Europa.
«Ormai la scena religiosa è globale. E il cattolicesimo è perfettamente attrezzato a questa sfida. Attenzione però: non è un globale indifferenziato. Il cattolicesimo ha delle chance ottime, ma non sono scontate. Ad esempio: anche in Europa la Chiesa, nel senso di gerarchia, dovrebbe dare più spazio e fiducia ai cattolici, così come avvenne al momento della nascita dell’Europa unita quando furono De Gasperi, Adenauer e Schumann a fondare questo spazio politico sovrannazionale. Tanto che in campo protestante si guardava all’Europa che si univa come a 'un complotto cattolico', solo perché erano cattolici i politici che stavano operando in tal senso. Oggi invece c’è meno mediazione da parte della Chiesa e questo suscita ancor di più la reazione, fortissima, delle lobby anticattoliche a Bruxelles e dintorni».
Facendo eco a papa Francesco ('La Chiesa non è una ong'), lei afferma: 'La chiesa ha delle organizzazioni, ma non è un’organizzazione'. Cosa vuole dire?
«Significa che i ministri ordinati servono e non possiedono la Chiesa. E che il ministero ordinato è a servizio della fede. Questa è semplice dottrina cattolica del Vaticano II. Invece resiste ancora l’idea che fare spazio ai laici significa cedere loro un milligrammo del potere clericale. Mentre invece l’apostolato dei laici è altro: è matrimonio, politica, economia, cucina, sport, non collaborare alla pastorale. C’è ancora molta strada da fare per una vera apertura al laicato».