Pietro Ingrao è stato sicuramente e profondamente comunista. Ma non è stato in modo altrettanto profondo marxista, leninista e - soprattutto stalinista. Quello di Ingrao, però, non è stato un comunismo tutto suo, come tende a suggerire chi oggi esalta in lui l’'eretico' o l’uomo del 'dissenso'. La ricchezza della sua umanità è fuori discussione, come pure la sua sensibilità poetica e il suo respiro umanistico. E, indubbiamente, eresia e dissenso hanno avuto nella sua vita grande importanza. Eppure non si è mai avvicinato allo scisma: come molti altri leader del Pci, aveva orrore per il 'frazionismo', considerata una delle colpe più gravi di cui un comunista potesse macchiarsi. Ingrao ha creduto infatti profondamente nel partito come straordinaria costruzione sociale in grado di raccogliere centinaia di migliaia di militanti e milioni di lavoratori. È stato decisamente uomo di partito quando ha commesso il grande 'Errore' della sua vita - come lo ha definito successivamente - scrivendo il 3 novembre 1956 l’editoriale dell’Unità - di cui divenne direttore giovanissimo - «Da una parte della barricata» che sposava le ragioni dei carri armati sovietiche contro gli insorti ungheresi nel 1956. Ed è stato profondamente uomo di partito anche quando, nel 1969, ha votato - con una durezza di cui si è successivamente pentito - per la radiazione del gruppo del
Manifesto, composto in gran parte di ingraiani e cioè di giovani che si riconoscevano nelle sue idee. Cresciuta nel contesto fascista - da giovane, Ingrao aderì ai Guf e partecipò ai Littoriali - la sua generazione non sentiva repulsione per la struttura autoritaria del Pci, il cosiddetto centralismo democratico. Ma non fu questo ad attrarlo, bensì il senso di responsabilità verso quei milioni di italiani anzitutto il popolo dei più deboli ed oppressi - che affidavano la loro vita e le loro speranze ai dirigenti del Pci. Il momento più importante della sua parabola politica si colloca - non è un caso - nell’XI Congresso del Partito comunista che si svolse nel 1966. Scomparso Togliatti due anni prima, emerse allora la 'destra amendoliana' - i futuri 'miglioristi' da cui è venuto anche Giorgio Napolitano - che considerava il centro-sinistra una dimostrazione dell’incapacità delle classi dirigenti italiane di guidare la modernizzazione del Paese e che credeva in un rapido recupero dell’unità tra comunisti e socialisti. Sul fronte opposto, invece, si pose la 'sinistra ingraiana' che individuava nel centrosinistra un’effettiva novità e perciò un autentico pericolo, cui reagire elaborando un 'modello alternativo di sviluppo', orientato da una critica più radicale al capitalismo moderno e proiettato verso una nuova architettura politico-istituzionale. Anche in seguito è stata questa la chiave principale della sua linea politica, che ha ispirato molti senza però tradursi in un progetto pienamente compiuto. Il discorso di Ingrao all’XI Congresso suscitò grande entusiasmo, ma fu bocciato dal gruppo dirigente. Il leader della sinistra del Pci uscì politicamente sconfitto e - secondo una regola tipica dei partiti comunisti - pesantemente isolato anche sul piano personale. Da quel momento, è stato un 'perdente', cui tutti però riconoscevano grandezza d’animo e nobiltà d’intenti, tanto da essere scelto nel 1976 - primo comunista - ad occupare il posto di presidente della Camera. Visse in tale posizione il sequestro Moro: fu per la linea della fermezza ma in seguito si è chiesto se non avesse sbagliato. Il senso di responsabilità lo ha guidato fino alle ultime fasi del Pci, spingendolo prima ad esprimere fiducia nella leadership di Occhetto e poi a contrastarne la decisione di sciogliere il partito. Per Ingrao, non si poteva tradire la fiducia e le speranze di tanti che continuavano ad affidarsi al Pci e al suo gruppo dirigente malgrado la caduta del muro di Berlino. Contrario alla divisione del partito in due tronconi, non si unì a Rifondazione Comunista che pure era più vicina ai suoi orientamenti e di cui avrebbe potuto essere il leader incontrastato. Anche dopo la fine del Pci, Ingrao non ha abbandonato la passione per la politica. Liberato dai vincoli di partito, però, ha fatto emergere le corde più profonde della sua umanità, che si esprimono soprattutto nella sua poesia. È approdato così ad un pacifismo radicale che ne ha fatto un tenace difensore dell’articolo 11 della Costituzione contro la guerra nel Kosovo prima e quella in Iraq poi. Nella bella autobiografia,
Volevo la luna, lo stesso Ingrao ha ricostruito il suo percorso verso il pacifismo ricordando la pubblicazione della
Pacem in terris e il singolare discorso 'giovanneo' di Togliatti a Bergamo nel 1963, l’interesse suscitato in lui da Danilo Dolci e l’avvicinamento alla religiosità gandhiana di Aldo Capitini. Tra i suoi desideri irrealizzati c’è stata anche la scelta per il silenzio e la vita in convento. Nella sua casa si conserva una sua fotografia con dom Benedetto Calati, priore generale dei Camaldolesi e figura di spicco nel panorama spirituale italiano del XX secolo. Era solito infatti frequentare, assieme a Rossana Rossanda e Mario Tronti, gli incontri fra credenti e no che padre Calati promuoveva nell’eremo.