Era destino che il “Bell’Antonio” del calcio italiano, Antonio Cabrini, finisse con il fare il beato tra le donne: dal maggio 2012, infatti, è il commissario tecnico della Nazionale italiana femminile di calcio. Una sfida per il 56enne Cabrini, più improba di quella provata da ct della Siria (dal 2007 al 2008), perché mentre nel resto del mondo il “calcio rosa” è in ascesa, da noi stenta ancora a decollare. «È un problema di mentalità – spiega Cabrini –, di cultura e del forte retaggio maschilista che paghiamo per via della nostra tradizione. I genitori nelle partite dei ragazzi spesso sono l’elemento negativo sugli spalti, in quelle femminili nemmeno ci arrivano: convincono le figlie a smettere ancor prima di cominciare. Se mia figlia mi avesse chiesto di giocare a calcio? Non avrei avuto problemi, anzi l’avrei incoraggiata a farlo...». È lo sfogo del professionista con alle spalle 352 partite in Serie A, del pelide guerriero della fascia sinistra con tredici stagioni di Juventus - con cui ha vinto tutto - e del terzino più forte del pianeta al Mundial di Spagna ’82, conquistato con l’Italia di Bearzot. Cabrini è uno allenato a tutto ed avvezzo a pensare in grande, ma qui bisogna fare i conti con la realtà di un movimento che sopravvive ed è in netto ritardo rispetto agli altri Paesi. «Gli Stati Uniti sono all’avanguardia, così come gran parte d’Europa ci sopravanza semplicemente perché si fanno degli investimenti. In Inghilterra so che stanno aprendo 35 scuole calcio federali di calcio femminile e nella piccola Svizzera ce ne sono almeno 7-8 nuove di zecca. Noi all’ultimo Europeo ci siamo piazzati tra le prime otto e contro la corazzata Germania, che poi ha vinto il titolo, siamo usciti a testa alta perdendo di misura, 1-0, ai quarti di finale. Per chi non lo sapesse le calciatrici tedesche tesserate sono oltre 1 milione, da noi arriviamo appena a 10mila». Bastano questi dati per capire il grande gap che non può essere certo colmato da un ex fuoriclasse del calcio azzurro e dalle sue volenterose ragazze della Nazionale. «In Italia gli sponsor latitano, la Premier e la Bundesliga da anni accanto alla prima squadra maschile hanno costituito quella femminile con campionati altamente competitivi. La nazionale spagnola è composta per 8 undicesimi da ragazze del Barcellona e queste fin da bambine imparano il “tiki-taka” alla stregua delle formazioni giovanili dei ragazzini della
cantera. Da noi quando vedremo una Juventus femminile che si allena a Vinovo e che può competere in Europa?».Insomma, se la Serie A maschile fa sempre più fatica a reggere il confronto con il calcio europeo, quello femminile è quasi costretto a fare i miracoli. «L’unica grande risorsa è la passione e lo spirito di sacrificio delle mie ragazze che sono encomiabili. Giocano e pensano da professioniste, ma il calcio femminile italiano è puro dilettantismo. Un buon 85% delle azzurre studiano e lavorano e spesso per rispondere a una mia convocazione sono costrette a prendere permessi dall’ufficio o, magari, dobbiamo intervenire con la Federazione per esentarle dalle lezioni universitarie obbligatorie». Sono quelle stesse ragazze che nelle rispettive società in cui militano, spesso vengono pagate con un rimborso spese e solo nel caso dei “top club” (qui si chiamano Brescia, Torres, Bardolino e Tavagnacco) arrivano ad ingaggi “stratosferici” da mille euro e spiccioli. Come siamo distanti dal mezzo milione di dollari che la brasiliana Marta Vieira da Silva, la “Pelè del calcio rosa” percepisce dai munifici americani del Western New York Flash. «Eppure noi – continua Cabrini –, dalla Patrizia Panico che a 38 anni è un esempio per tutte, fino alla più giovane, Nenè (“blackitalian” 100%), abbiamo dei talenti su cui puntare per il futuro, ma ci serve una grossa mano, prima di tutto dalle istituzioni. Con l’Under 17 siamo qualificati per i Mondiali di Costarica 2014, ma se le ragazze cominciassero a giocare a pallone in età scolastica, la selezione dell’Under 15 non sarebbe più un’utopia, ma un progetto realizzabile in tempi rapidi». Ricapitolando, il vuoto attuale è generato fondamentalmente dall’assenza delle tre “s”: scuola, sponsor e società professionistiche. «No, c’è un quarto punto, l’oscuramento da parte dei media – spiega il ct –. Agli Europei né la Rai, né le tv private hanno trasmesso le nostre partite e in tribuna stampa non c’era un inviato di giornale. Per farci pubblicare un trafiletto prima del match con la Germania abbiamo esercitato un pressing che neppure in campo...», commenta amaro Cabrini che, però, non si arrende dinanzi all’indifferenza mediatica e tanto meno rispetto all’atteggiamento ostile riservatogli da certe “colleghe ct”. «L’indifferenza nasce dal fatto che il calcio da noi viene concepito come solo maschile. Il confronto in campo non può esistere: è provato che una nazionale femminile può giocarsela alla pari al massimo contro una formazione Allievi di un club di Serie A. È un fattore puramente fisiologico... Come mi hanno accolto le allenatrici di altre nazionali? In generale approcciano con aria da “saputelle” come a dire: va bene, sarai anche Cabrini il campione del mondo, ma non vorrai mica spiegare a noi come si gioca a pallone? ». Il Bell’Antonio ci ride su e dà l’ultima ripassata alla tattica, perché oggi a Novara (ore 15) è tempo di match contro la Repubblica Ceca. «Ci giochiamo la qualificazione ai Mondiali di Canada 2015. Siamo secondi nel girone e, probabilmente, sarà decisivo lo scontro diretto di aprile contro la Spagna (il 5 aprile a Vicenza) che ora è al comando. Le mie ragazze ce la metteranno tutta per centrare l’obiettivo, ma non mi stanco di ripeterlo: il movimento crescerà e diventerà davvero forte, solo quando quest’Italia sarà più aperta mentalmente verso il calcio femminile ».