Profughi e fine della compassione
martedì 3 marzo 2020

Samo proprio alla «fine della compassione», per citare Alejandro Portes, uno dei massimi esperti di fenomeni migratori. Lui si riferisce però agli Stati Uniti d’America, mentre noi vediamo finire la compassione ai confini d’Europa. Distratte dal coronavirus, assuefatte dalle ripetute notizie degli arrivi di profughi, ma soprattutto fuorviate dalla propaganda sovranista e da un’informazione ansiogena, le opinioni pubbliche europee non appaiono più capaci di umanità nei confronti di chi fugge dall’ultima battaglia del tormentato teatro bellico siriano e di chi dalla Turchia cerca di raggiungere il territorio della Ue. Nella regione di Idlib una popolazione stimata dall’Onu in 950.000 persone, di cui 560.000 minori, ha lasciato le proprie case e cerca scampo varcando il confine con la Turchia.

Respinta con durezza, spesso dopo aver speso il poco che ancora aveva per pagare i passatori. Già diversi bambini sono morti di freddo perché rimasti senza riparo. A sua volta Ankara ha lanciato un sinistro avvertimento ai governi europei, consentendo il passaggio di alcune migliaia di profughi verso la Grecia e la Bulgaria: circa 13.000 secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, una cifra dieci volte superiore secondo il governo turco che ha interesse a drammatizzare la crisi.

Il governo greco sta reagendo con una durezza contro civili inermi mai vista negli ultimi decenni, almeno nella Ue: come se si trattasse di un’invasione armata di orde di nemici. Non hanno (ancora) sparato proiettili veri, ma non hanno lesinato tutte le altre armi a loro disposizione, dalle bombe lacrimogene ai cannoni ad acqua, dai proiettili di gomma, alle granate stordenti.

Quel che è peggio, gli abitanti dell’isola di Lesbo che in un passato non lontano avevano dato prova di umanità nei confronti dei rifugiati, si sono ora scagliati contro di loro (circa 600 arrivi negli ultimi giorni, non certo uno tsunami umano), respingendo in mare i gommoni, attaccando le Ong, minacciando gli operatori dell’accoglienza, malmenando i giornalisti. Certo, nei campi profughi di Lesbo e delle isole vicine sono stipati in condizioni deplorevoli circa 40mila richiedenti asilo, in strutture progettate per accoglierne 7.500. Ma si tratta di un tipico caso di emergenza prodotta dalla politica: le persone arrivate dalla Turchia sono state lasciate lì, pressoché prive di assistenza, invece di essere redistribuite in Grecia e in altri Paesi.

Ad aggravare il quadro hanno contribuito le istituzioni europee: in queste ore drammatiche si sono sbracciate a offrire solidarietà alla Grecia nel blocco dei confini, a promettere di far intervenire rinforzi, a cercare contatti con la Turchia per convincerla a riprendere il ruolo di gendarme di frontiera della Ue, certo non gratuitamente.

Si torna a parlare insistentemente di 'ingressi illegali', come se i profughi dalla Siria potessero chiedere un visto presso un qualche ufficio. Erdogan a sua volta non solo batte cassa, ma pretende la solidarietà dei governi europei nella sua battaglia contro il governo di Damasco per il controllo dell’area di Idlib. Ancora una volta migliaia di rifugiati inermi, con il loro carico di sofferenze, anziché essere protetti sono usati come arma di ricatto politico dagli uni, e trattati come orde di nemici o quanto meno di ingombranti e molesti questuanti dagli altri: cioè da noi, gli alfieri dei diritti umani nel mondo.

A chi per ogni sbarco parla di 'invasione' o di 'carichi insopportabili' per l’Europa va ricordato ancora una volta che l’84% dei rifugiati internazionali è accolto in Paesi in via di sviluppo, uno scarso 13% nell’Ue. L’unico Paese dell’Ue a figurare tra i primi dieci paesi al mondo per numero di rifugiati internazionali accolti è la Germania, dove peraltro circa 400mila rifugiati arrivati negli ultimi anni hanno trovato lavoro, mentre altri 40.000 stanno frequentando corsi di formazione professionale. La drammatica vicenda comporta almeno tre riflessioni. Primo: aver delegato a Erdogan l’accoglienza dei rifugiati ha reso più debole e ricattabile la Ue nei confronti della Turchia, esponendola a serie conseguenze nel medio e lungo periodo. Secondo: forse per non cedere terreno a forze illiberali, la Ue sta adottando la visione, gli standard morali e le strategie proposte da queste stesse forze. Le sta legittimando sul piano culturale, preparando per sé un futuro ancora più inquietante.

Terzo: anziché proporsi come un punto di riferimento per chi nel mondo considera la democrazia inscindibile dal rispetto dei diritti umani, la Ue arretra e si trincera nell’angusto recinto dei propri presunti interessi. Sta svendendo la sua residua credibilità internazionale al mercato delle (asserite) convenienze di corto respiro. Fermiamoci, ritroviamo umana compassione e lucidità politica, cambiamo rotta prima che sia troppo tardi.

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