«La sera del 9 ottobre di cinquant’anni fa mi ero appena coricato, ero girato su un fianco rivolto verso il lago quando ci fu un movimento sussultorio: ho visto aprirsi la parete e richiudersi subito dopo. Ci rifugiammo a tentoni sulla montagna, aspettammo nel buio sentendo le urla che salivano. Solo alla luce dell’alba vedemmo quell’apocalisse. Nelle acque del lago galleggiavano una bambola smembrata e i relitti di due crocefissi in legno, mutilati...». E tutti e tre ieri don Gastone Liut, parroco di Vajont, li ha voluti sull’altare per la Messa serale, celebrata insieme al vescovo Pellegrini per i cinquant’anni dalla tragedia che spazzò via duemila vite e molte più identità. «Già, perché io che allora ero giovane prete a Erto mi ritrovai improvvisamente sbalzato a raccogliere le membra sparse di una popolazione devastata, restituire un senso al futuro e trovarne uno per ciò che era accaduto. Il disastro non era sentito come una catastrofe naturale, ma come il risultato di un’immensa malizia umana, indifferente ai rischi ampiamente annunciati: questa ferita antropologica era ben più devastante del potere di morte dell’acqua piombata sui paesi seminando distruzione...». Come si può infatti sopravvivere a un’ecatombe che di fatale non ha nulla, generata dalla temeraria incoscienza di altri uomini? «Questo si chiedeva la gente – continua don Gastone, che da quei luoghi non se n’è mai andato –: perché l’uomo non conta nulla? perché il mondo degli interessi non frena davanti alla strage umana? perché il potere politico non si erge come diga davanti alla divorante avidità? La frana sociale faceva gemere quanto quella del monte Toc», scendeva come lama tagliente nel profondo delle coscienze, segnava a lutto l’immagine stessa della convivenza. E intanto minava le certezze del giovane parroco, che dopo appena tre anni di Messa e a due mesi dal suo arrivo a Erto misurava la sua piccolezza: da dove si parte dopo un tale diluvio? Quale arca costruire per far ripartire il mondo? <+corsivo>Anche il sacerdote e il profeta si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare<+tondo>, lamenta Geremia.«Proprio quando mi sentii perduto, la Provvidenza mi venne incontro facendomi incontrare a Roma padre Giovanni Battista Cappellato, friulano come me ma da bambino emigrato a Buenos Aires e cresciuto nella diocesi di papa Bergoglio». Faceva parte del "Movimento per un mondo migliore" e lo affiancò nell’impresa ad un patto: che don Gastone restasse in quella parrocchia per almeno un decennio. Ci rimase per sempre. Il "Movimento mondo migliore" oggi è sparso in tutti i continenti e coinvolge la vita di cinquanta milioni di persone in migliaia di parrocchie, ma proprio nella via Crucis di Erto e Casso ebbe la sua esperienza pilota, al punto che qualcuno oggi definisce il Vajont un’altra Barbiana: «Come la scuola di don Milani aveva dato una svolta alla pedagogia, qui è avvenuta una rivoluzione ancora più grande», spiega don Liut, che sulle macerie di un dolore universale calava i valori attinti dal recente Concilio Vaticano II. <+corsivo>Laddove è abbondato il peccato, lì ha sovrabbondato la grazia<+tondo>, cita il prete dalla Lettera ai Romani di san Paolo, come a dire che a Longarone, a Erto, a Casso, a Codissago, a Castellazzo il 9 ottobre di cinquant’anni fa il male ha esercitato tutta la sua potenza, ma quella stessa notte il Bene cominciava a costruire, come avviene sempre, anche se la cosa più difficile al mondo era andarlo a raccontare a quella gente. Quale pastorale poteva essere all’altezza del loro dolore? Come fare della loro tragedia materia per una storia sacra?I sopravvissuti avevano lasciato il cuore nelle loro case ed erano stati trasferiti a Vajont, «un paese artificiale messo su in fretta dallo Stato fuori dalla valle del torrente Vajont per sdebitare le sua sporca coscienza», ricorda il parroco, profugo anche lui tra i profughi a soli 40 chilometri da Erto. Vi erano ammassati tutti i superstiti dei vari paesi colpiti, più alcune famiglie immigrate dal resto d’Italia e un gruppo di statunitensi della base di Aviano, la frammentazione e l’alienazione erano assolute. «Non si trattava di rifare solo le case e di risarcire i danni, qui era in gioco una convivenza umana alternativa al modello basato sul profitto, quello che aveva causato il disastro». E così la comunità più povera e martirizzata diventava laboratorio universale in cui reagire al male assoluto, «sperimentando una nuova accoglienza del principio-amore così come il Concilio Vaticano ce lo aveva consegnato». Si partiva da persone distrutte e arrabbiate con Dio, con almeno metà delle famiglie in stato di provvisorietà, le anime di adulti e bambini segnate a livello psichico dalla tragedia e dalle sue conseguenze, non escluso l’alcol. Eppure «Dio, che sceglie sempre i piccoli, ha scelto questa gente e l’ha prediletta, perché Vajont ha vinto la sua sfida e grazie al "Movimento mondo migliore" rappresenta l’epicentro di un sisma benefico che ha raggiunto le chiese di tutto il mondo». Il metodo del padre argentino mirava a immergere la comunità nell’amore di Dio attraverso un concreto progetto pastorale in tre tappe: la riscoperta delle relazioni fraterne laddove sembravano sepolte per sempre, il passaggio da una mentalità mondana e individualistica al "noi" di una comunità credente, l’attuazione di una Chiesa serva del mondo, capace di andare nelle periferie e farsi dono di sé. «La grinta di padre Cappellaro, la forza crescente di tanti laici e tanti giovani, l’alleanza fertile con le suore della Divina Volontà, specializzate per far fronte ai casi estremi e arrivate apposta da Bassano del Grappa, hanno determinato il successo».Lo ha detto ieri sera il parroco ormai ottantenne alla sua gente nell’ora del dolore: «Noi, comunità atipica, siamo la Chiesa di Gesù nata dalla sua morte e risurrezione. L’abisso della notte si è trasformato in un abisso di grazia», esempio per tutti. Perché Vajont è ovunque nel mondo, la roccia franata nell’invaso «strapiomba ogni giorno nell’invaso della convivenza sociale», nell’ingiustizia di chi percorrendo la via del mare «trova morte nel fondo di quel nostro invaso che è il Mediterraneo». Vajont ieri sera testimoniava che là dove un uomo viene violato «Dio si schiera dalla parte della vittima innocente». Sull’altare l’umanità spezzata di Cristo, quel Dio nel legno, mutilato per farsi come noi.