Un euro in più il costo del pieno dal benzinaio, un altro euro e mezzo la spesa al supermercato e 10 centesimi in più la colazione al bar. Forse per comprendere in maniera più immediata l’effetto pratico della “revisione della spesa”, occorre pensare anzitutto a ciò che il decreto del governo scongiura (almeno per un anno). L’aumento di 2 punti dell’Iva, infatti, peserebbe in maniera diretta e sensibile sui portafogli dei cittadini. Sui nostri bilanci familiari, che già hanno perso in un anno il 2% di potere d’acquisto.
Tagliare le spese dell’amministrazione pubblica, dunque, non è solo necessario per la congiuntura economica difficilissima che ci troviamo ad affrontare. Ma risulta al tempo stesso conveniente per i cittadini e funzionale all’imprescindibile riforma strutturale del nostro sistema economico. Che non può più reggersi su una spesa dello Stato in crescita esponenziale, giunta ormai a pesare per la metà del valore complessivo del nostro Prodotto interno lordo. Una spesa solo in parte destinata a costituire i pilastri dei servizi pubblici e del welfare e che, invece, finisce in grande percentuale per disperdersi in mille, anzi milioni di rivoli, non tutti trasparenti, quasi sempre improduttivi.Una spesa finanziata attraverso un sempre più elevato ricorso al debito pubblico. Di fatto colpevolmente scaricata sulle spalle delle generazioni a venire. Il valore del decreto approvato giovedì notte, allora, va ben al di là dei pur consistenti 26 miliardi di risparmi previsti da qui al 2014. Al di là pure delle singole misure, che presentano luci e ombre, che appaiono incisive ma dagli esiti non sempre prevedibili. Si pensi al dimezzamento delle Province, razionale e da tempo atteso, ma che non è chiaro quali e quanti risparmi possa effettivamente generare. O al taglio del personale e dei dirigenti pubblici. Che saranno pure in eccesso in alcune amministrazioni, ma che costringe il governo a smentire se stesso: operando una deroga alla riforma delle pensioni (come si potrà poi negare analoga manovra al settore privato?) e, per la prima volta, a licenziare migliaia di lavoratori. Oppure ancora ai risparmi sulle Forze armate, operati solo sul personale e sul finanziamento delle missioni di pace, mentre le dotazioni d’arma non vengono ridotte.E infine, bene la centralizzazione degli acquisti e il dimezzamento delle spese per le auto blu, bene la razionalizzazione dell’offerta ospedaliera e della spesa sanitaria in genere, ma non sappiamo quali effetti concreti sui servizi ai cittadini finirà per produrre l’ennesimo taglio dei trasferimenti a Regioni, Province autonome e Comuni.
Sulle singole scelte, allora, si può e si deve dibattere. E questo accadrà certamente, anche in Parlamento. Non va però fermata la grande operazione strutturale che il decreto finalmente avvia. La revisione e riduzione della spesa pubblica non può restare uno slogan, se vogliamo uscire dalla spirale fatta di incremento della spesa, nuovo debito, aumento delle tasse, recessione. Piuttosto deve diventare un habitus , un metodo da applicare in maniera sistematica per liberare risorse da destinare alla riduzione delle imposte e all’azione della società civile. Perciò chi oggi reagisce e protesta, anche legittimamente, deve saper farsi carico di un “di più” di responsabilità. Non per compiacenza verso questo governo di buona volontà o la sua strana maggioranza. Ma per il Paese nel suo complesso.
Post scriptum. Nell’ultima versione del decreto sono stati cancellati 200 milioni di euro attribuiti alle scuole paritarie. Si trattava della parziale reintegrazione di fondi drammaticamente tagliati nei mesi scorsi (da 510 a circa 250). Perché aveva senso prevederla in un provvedimento teso a garantire risparmi? Perché per ogni alunno iscritto al sistema della scuola pubblica non statale, l’amministrazione risparmia quasi 6mila euro l’anno. Moltiplicato per un milione di studenti – quelli che attualmente frequentano le scuole paritarie – fa circa 6 miliardi. “Risparmiare” 260 milioni, rischiando però di dover poi sborsare 6 miliardi, non solo non sarebbe un grande affare, ma getterebbe nel caos il sistema dell’istruzione pubblica. Tutto: statale e non statale paritario. Meglio pensarci per tempo, e bene.