venerdì 15 novembre 2013
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È vero: i dati sono relativi al 2011, prima che entrassero in vigore le norme del governo Monti sul tetto agli stipendi pubblici. E sì, certo, parliamo di remunerazioni lorde, sulle quali, come si è affannato a precisare il ministero della Funzione pubblica, «pesano imposte e contributi fino a un 40%». Ma tutto questo non basta a evitare una sensazione di fastidio, e di amarezza insieme, per la classifica dell’Ocse, nella quale i massimi dirigenti pubblici italiani risultano di gran lunga i più pagati al mondo. Un problema, quello dei super-stipendi che non riguarda solo la Pubblica amministrazione e che, in un tempo di crisi e sacrifici per tanti, merita qualche riflessione.Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dunque, i nostri super-burocrati conquistano la vetta della classifica con uno stipendio medio di ben 650mila dollari, oltre 250mila in più dei secondi classificati (i neozelandesi) e quasi il triplo della media Ocse (232mila dollari). Visti gli stipendi tre volte più alti di quelli degli omologhi dirigenti francesi o tedeschi, in Italia sarebbe lecito attendersi una burocrazia ultra-efficiente, in grado di dare risposte immediate e chiare ai problemi dei cittadini: altro che precisione teutonica, altro che pervasività francese! E invece i nostri ministeri restano l’impenetrabile regno di caste di iniziati – alti burocrati con un potere reale superiore a quello dei politici – nei quali si perdono i decreti attuativi delle leggi e finisce per smarrirsi il Paese intero.Il problema dei super-stipendi – ai quali, ed è forse l’aspetto peggiore, corrisponderanno un domani "pensioni di platino" – però, non riguarda solo la Pubblica amministrazione, ma anche il settore privato. Nel quale le differenze tra le remunerazioni dei top manager e quelle dei dipendenti al gradino più basso sono cresciute negli ultimi decenni fino a livelli difficilmente giustificabili. Il record, in questo caso, fu raggiunto nel 2010 all’Unicredit, quando il rapporto tra la remunerazione dell’amministratore delegato e il salario dell’ultimo assunto arrivò a 1.500 a 1. Un caso eccezionale, certo, ma nel nostro Paese in molte aziende blasonate come Pirelli o Fiat, Generali o Mediaset e non solo nelle banche, la proporzione tra stipendi massimi dei vertici e minimi dei lavoratori oscilla tra il 130 e il 230 a 1. Come a dire: 10.000 euro l’anno a un operaio e 2,3 milioni all’amministratore delegato (senza contare le stock option, con le quali si arriva facilmente oltre quota 1.000 a 1). Una proporzione equa? Che trova una giustificazione e un riscontro nel differente impegno, nella diversa responsabilità richiesta al dirigente da un lato e all’impiegato dall’altro? E nel settore privato è giusto (e possibile) fissare un tetto agli stipendi, pur sempre pagati da azionisti terzi, liberi di decidere come meglio credono?Il dibattito sul tema è acceso da tempo (su Avvenire ne parlammo a febbraio con un articolo del professor Marco Morosini). In Italia, Sel e Movimento 5 Stelle insistono per l’approvazione di una norma che limiti gli stipendi d’oro, mentre la Cisl, con la federazione dei bancari, sta raccogliendo le firme per un progetto di legge di iniziativa popolare che dia un taglio alle super-remunerazioni dei top manager. In Svizzera, invece, sono più avanti: tra 10 giorni si andrà alle urne proprio per decidere se porre un tetto alle retribuzioni private. Nella patria delle grandi banche, dove le differenze retributive sono arrivate a toccare un massimo di 1.260 a 1, i promotori della consultazione propongono addirittura una limitazione drastica del rapporto a quota 12 a 1.Sarà interessante riscontrare se – al risultato del voto – corrisponderà poi un effettivo cambiamento, che segnerebbe certamente una svolta storica. La questione non è certamente semplice e assomiglia molto alla ricerca di quel "prezzo giusto" che appassionò e divise filosofi e religiosi nel Medioevo, di fatto senza che si approdasse a una definizione condivisa. Oggi abbiamo in più la "ricchezza" degli insegnamenti della Caritas in veritate e la "povera" testimonianza di Papa Francesco a indicarci, se non una soluzione pronta all’uso, certamente una via e una direzione definite. E d’altro canto, sarebbe sufficiente guardare ai troppi guasti che una perversa redistribuzione della ricchezza verso pochi, a danno di tanti, sta provocando, per farsi un’idea precisa al riguardo.
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