Meglio tardi che mai. Anche la signora dell’austherity, Angela Merkel, starebbe valutando l’ipotesi di allentare quel rigore di bilancio che, sfruttando competitività propria e debolezze altrui, ha permesso alla Germania di utilizzare l’export come strumento di dominio economico e realizzare un surplus nella bilancia commerciale da 170 miliardi di euro. Imponendo, per di più, ai partner in deficit vertiginosi rientri che hanno finito per aggravare la recessione in atto.Ma la necessità politica di allargare la maggioranza ai socialdemocratici della Spd parrebbe avere aperto una breccia nel rigorismo teutonico. La stampa tedesca parla addirittura di un patto di politica interna per staccare un assegno da 58 miliardi: 18 per l’istruzione, 15 per le pensioni di solidarietà, 10 per quelle minime garantite alle madri sole e altri 15 fra assegni familiari e infrastrutture. Spesa pubblica, dunque, in chiave pro-ciclica. O, se volete, d’intonazione anti-austherity. Un primo alleggerimento domestico, benché tardivo, che potrebbe comunque favorirne un secondo sul parterre europeo.Sarebbe un errore, tuttavia, aspettare il cambio di marcia tedesco per legittimare quello più che mai necessario in altri Paesi fra i quali l’Italia. Un errore speculare al trasformare Berlino nel capro espiatorio di squilibri globali, ai quali hanno quanto meno contribuito errori e inerzie di altre Capitali. La miopia politica nella mancata soluzione della crisi greca quand’era in fase embrionale è sicuramente imputabile all’intransigenza di
frau Merkel e a una buona dose di egoismo germanico, essendo proprio le banche tedesche – assieme a quelle francesi – le più esposte sul pericolante Peloponneso. Ma pare eccessivo accusare Berlino di utilizzare a suo piacimento e per proprio tornaconto l’euro quasi fosse un "super-marco". Eppure dal Fondo monetario alla Francia, da James Cameron al Tesoro americano – che può per altro sfruttare gli 85 miliardi di dollari "prestati" ogni mese dalla Fed, questa sì, a livello globale, una "droga" sui mercati – è iniziata una sorta di caccia alla strega tedesca.L'euro è stato in realtà una premessa di crescita per tutti i Paesi dell’area. In prospettiva macroeconomica, fino allo scoppio dell’ultima grande crisi globale, soprattutto per gli Stati con i bilanci in disordine. Come l’Italia: grazie alla divisa unica i tassi reali sul nostro debito si abbassarono drasticamente, essendo di fatto ancorati a quelli tedeschi, con un risparmio nell’ordine dei mille miliardi di euro in termini di interessi non più da onorare. Un regalo sprecato da una classe dirigente – pubblica e privata, grandi imprese incluse – in troppi casi non all’altezza. All’epoca i tedeschi, con l’euro, ci guadagnarono in realtà ben poco. Non solo: sino alle pesantissime riforme strutturali varate dal cancelliere Schroeder, la bilancia commerciale fra Italia e Germania pendeva addirittura a nostro favore: fino al 2005 era l’Italia a vendere di più oltre le Alpi. Mancate riforme, vigilanza approssimativa sul cambio lira-euro, incapacità perenne di tagliare la spesa improduttiva hanno azzerato il bonus. Demerito nostro, insomma, non vizi altrui. Quanto a solidarietà europea, poi, la Germania resta tuttora il primo finanziatore: tra fondi strutturali, agricoli e di stabilità, quelli varati nel 2009 per far fronte alla crisi dei debiti pubblici, il gettone sfiora i 350 miliardi l’anno. Ai quali si aggiungono i 700 miliardi di esposizione della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, nei confronti dell’Europa.Oggi l’Italia è alle prese con una manovra da 12 miliardi, forse 14. Che il Parlamento cambierà probabilmente negli addendi ma il cui "perimetro" resterà invariato. Tanto – ed è troppo poco – può "manovrare" in questo momento l’ottava economia mondiale. Dal 2016, poi, l’Italia, come ogni Paese del Vecchio Continente che sfora un rapporto debito Pil del 60%, dovrà obbligatoriamente ridurre tale rapporto di almeno un ventesimo della differenza con il 60% ogni anno. Altro che 12-14 miliardi: ci vorranno manovre lacrime e sangue solo per rispettare questa regola comunitaria che ha di fatto inasprito il Patto di stabilità e crescita del 1999, con un evidente accento sulla stabilità (austerità) e non sulla crescita. A meno che l’Europa non scelga di cambiare finalmente strada. Insieme.La vera partita, cioè, si gioca a livello comunitario. Non con le singole manovre o coi attacchi mirati a un singolo Paese, fosse anche l’insensibile – agli occhi altrui – corazzata tedesca. E ciò presuppone che siano i singoli Paesi, Italia inclusa, ad assumersi anzitutto le proprie responsabilità e ad avere la forza politica interna per sostenere a livello europeo scelte più coraggiose. È già successo, ad esempio, con la decisione condivisa di potenziare le risorse per la lotta alla disoccupazione giovanile. Dovrebbe accadere, ora, anche sulle opzioni macro-economiche per la crescita, che richiedono però un cambio di rotta radicale. Approfittando magari di una governo tedesco che finalmente – pro domo sua? – si profila meno rigido. In ballo non è il destino dell’Italia o della Germania, ma quello dell’Europa intera.