«Progettare per modernizzare». Era questo il filo conduttore che animava l’elaborazione progettuale del professor Marco Biagi ed è con questo spirito propositivo e proiettato al futuro che abbiamo voluto ricordarlo a Roma nel dodicesimo anniversario dalla sua scomparsa. In presenza del ministro del Lavoro Poletti, abbiamo presentato, con Pietro Ichino, un progetto di "Codice semplificato" che rappresenta uno dei capisaldi del Jobs Act di Matteo Renzi e che bene si coniuga con l’idea, cara a Marco Biagi, di ricondurre la complessa normativa del diritto del lavoro italiano in un agile e moderno "Statuto dei lavori".
Tante e di diversa ispirazione culturale e valoriale sono le proposte di riforma avanzate in questi ultimi anni. Quella del codice del lavoro ci è apparsa subito una idea vincente, un terreno per persone di "buona volontà". Forte e sempre più sentita è, infatti, l’esigenza di semplificare e rendere comprensibile un quadro regolatorio del lavoro che ha smesso di funzionare da tempo e che, paradossalmente, non soddisfa nessuna delle due parti del rapporto di lavoro. Non i lavoratori che si sentono insicuri e precari e che sempre più spesso vedono attaccate non solo le loro certezze materiali, legate al reddito e al posto di lavoro, ma anche quella dignità della persona che solo il lavoro può dare. Lo stesso, a ben vedere, vale per gli imprenditori che vivono esperienze di solitudine, lasciati soli da una politica che non sa fare le scelte necessarie per il risanamento del Paese e da un apparato burocratico ostile che opprime la naturale propensione delle imprese ad assumere e competere, fiaccate come sono da una pesante zavorra di regole e precetti formali che nulla hanno a che vedere con la tutela della persona che lavora.
Per queste ragioni il "codice semplificato" non vuole essere – e non è – un più o meno brillante esercizio accademico svolto in perfetta solitudine come spesso avviene nelle nostre Università. Per tre mesi oltre duecento esperti (uomini e donne di azienda e del sindacato, avvocati e consulenti del lavoro, cultori della materia e ricercatori) hanno lavorato sulla piattaforma di cooperazione di Adapt, l’associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi, applicando il suo metodo che era quello del confronto e del dialogo alla ricerca di punti avanzati di compromesso tra posizioni divergenti come inizialmente erano quelle da cui partivamo io e Pietro Ichino e le tante persone che via via si sono unite al progetto portando la ricchezza di un contributo tecnico, esperenziale e professionale.
L’obiettivo che ci eravamo posti era collaborare in modo costruttivo per realizzare, in una ottica propositiva e bipartisan, una reale semplificazione delle norme che regolano il lavoro; per renderle leggibili e comprensibili a tutti, compresi gli investitori stranieri che rimangono scoraggiati da una babele normativa che complica inutilmente la vita delle aziende senza garantire effettive tutele ai lavoratori e concrete occasioni impiego in una ottica di inclusione e partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. Il "Codice semplificato" – reso pubblico sul sito www.bollettinoadapt.it – è un testo di legge che abroga la moltitudine di norme che attualmente disciplinano il lavoro sostituendole con sessanta articoli, da inserire all’interno del codice civile, e pochi testi unici dedicati a materie complesse come la sicurezza sul lavoro, gli ammortizzatori sociali e l’apprendistato.
Non importa in questa sede entrare nel merito delle proposte e delle singole soluzioni tecniche. Ciò che rileva è piuttosto la dimostrazione che semplificare il lavoro è possibile e che il confronto tra posizioni diverse è sempre occasione di arricchimento e non certo un tradire i propri ideali e convinzioni. L’esito finale è un documento aperto, suscettibile di integrazioni e correttivi, che offriamo ora al ministro del Lavoro e alle parti sociali. Su tutte le proposte siano pronti a cambiare opinione, ma non sui due capisaldi del progetto. In primo luogo l’apertura a tutte le forme di lavoro, ben al di là delle Colonne d’Ercole del lavoro dipendente, che ha finito con il relegare ai margini del sistema di welfare il popolo delle partire Iva genuine e dei tanti lavoratori indipendenti che operano a progetto o su commessa. Il mondo del lavoro è cambiato a tal punto – e ancor più cambierà nei prossimi anni – da mettere definitivamente in discussione i tradizionali modelli di organizzazione del lavoro incentrati sui concetti di gerarchia, potere e controllo e, con essi, il paradigma normativo della subordinazione posto alla base dei processi legali e contrattuali di regolamentazione dei rapporti di lavoro. Le nuove tecnologie aumentano e non comprimono l’autonomia delle persone, le specializzazioni produttive e la pluralità dei modi di lavorare e posizionarsi sul mercato. L’epocale cambiamento in atto non può più essere governato attraverso i canoni tradizionali del diritto del lavoro di matrice fordista, con rapporti statici e di rigida subordinazione gerarchica nell’ambito di una impresa organizzata in linea verticale. L’accresciuta importanza delle competenze, delle attitudini e delle motivazioni delle persone cambia i modelli di organizzazione e gestione delle risorse umane. Il valore e qualità del lavoro dipendono, in misura sempre maggiore, dalle competenze e dalla autonomia del singolo collaboratore, più che da un rigido assetto regolatorio, predeterminato dalle leggi e dai contratti collettivi nazionali di lavoro, che ingabbia e comprime il dinamismo di un mondo del lavoro che cambia incessantemente.
L’unificazione del mercato del lavoro impone, in secondo luogo, la riscrittura della stessa nozione di impresa, dall’altro lato, che non è più solo il freddo luogo dello scambio lavoro contro retribuzione, ma che è anche formazione sociale, luogo dove si sviluppa la persona che deve essere animato da logiche partecipative e collaborative tipiche di una comunità protesa al bene comune. Il cuore della semplificazione è tutto qui, almeno nel nostro progetto: spostare l’attenzione dalla dimensione puramente economicistica del lavoro a quella antropologica perché, come già diceva Giovanni Paolo II nella enciclica Laborem exercens, la dimensione soggettiva e relazionale deve mantenere il primato sulle regole oggettive e formalistiche attraverso cui il lavoro si esprime e manifesta.
MicheleTiraboschi @Michele_ADAPT