venerdì 7 giugno 2013
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​In un tempo non lontano la chiamavano "Troika". Non solo perché erano tre i soggetti che la componevano – la Banca centrale europea, la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale – ma anche perché, quando si trattava di consigliare un Paese in difficoltà, le tre istituzioni agivano all’unisono. Il parlare con una voce sola è stato un elemento decisivo nelle fasi cruciali della crisi, sostanzialmente per due motivi. Il primo: la concessione di aiuti ai Paesi in difficoltà è stata collegata all’ascolto e, soprattutto, all’attuazione dei "suggerimenti" di Bce, Ue e Fmi. Il secondo: la comunità finanziaria internazionale ha deciso o meno di sostenere un Paese proprio sulla base dei giudizi della Troika sul grado di "malattia" e sull’efficacia della "terapia" adottata. Il problema nuovo è che, da qualche giorno, la Troika in quanto tale non esiste più. Il Fondo monetario ha infatti ammesso apertamente di avere sbagliato nella diagnosi dei problemi della Grecia e nella scelta delle medicine da somministrare. Il "mea culpa" è contenuto in un rapporto fatto filtrare al Wall Street Journal, e l’esperienza dice che "spifferi" di questo tipo non si formano mai per caso. Non si tratta, infatti, di una lotta tra punti di vista differenti (o tra semplici cordate) all’interno dell’Istituto la cui sede centrale è a all’angolo tra Pennsylvania Avenue e la Diciannovesima Strada di Washington – a pochi passi, quindi, dalla Casa Banca e dal Ministero del Tesoro degli Stati Uniti. Da oltre un anno l’economista capo del Fmi, Olivier Jean Blanchard, sostiene che riguardo alla Grecia la terapia della Troika ha sottostimato alcuni parametri tecnici: principalmente quello che in gergo viene chiamato il fiscal multiplier, ossia gli effetti delle restrizioni di bilancio sull’economia reale. In sostanza, l’austerità imposta ad Atene ha avvitato la Repubblica Ellenica in una recessione sempre più grave, con la conseguenza di aumentare il rapporto tra lo stock del debito e il Pil, rendendo il Paese sempre meno solvibile. Risultati esattamente all’opposto di quello che si sarebbe invece voluto ottenere. I lettori di Avvenire sanno che non per tutti è una scoperta dell’ultim’ora...La questione è stata affrontata in una dozzina di convegni, sulla base di lavori scientifici, con aspetti molto tecnici ma dall’indubbio valore politico. Un dibattito aperto, in cui un numero crescente di accademici americani e di alti funzionari del Tesoro, oltre che della Riserva Federale degli Stati Uniti, sono sembrati molto vicini alle posizioni di Blanchard. È un fatto, per altro, che da diversi mesi, gli Stati Uniti stanno attuando una politica monetaria fortemente "espansiva", come risposta alla crisi. Una strada intrapresa in modo ancora più deciso dal Giappone, con Washington che non fa mistero di guardare con preoccupazione al perseverare dell’Eurozona nella strategia del rigore espansivo, oggi riconosciuta come una palla di piombo al piede dell’economia mondiale. L’ammissione, da parte del Fondo monetario, dell’errore nella terapia (e forse anche nella diagnosi) per la cura della Grecia, e dunque per gli altri Paesi in difficoltà, appare però tardiva. Molti economisti europei l’avevano sottolineato da mesi. Del resto, una quindicina di anni fa, il Fmi fece "mea culpa" dopo un’altra crisi debitoria, quella che interessò le nazioni asiatiche, trattata con misure analoghe a quelle adottate in Grecia. In questi anni al Fondo ci sono stati numerosi cambiamenti di personale, a tutti i livelli. La memoria istituzionale, però, avrebbe dovuto essere meno corta. Tantopiù che, allora, l’economista Joseph Stiglitz (futuro Premio Nobel) sbatté la porta e si dimise dalla carica di vicepresidente della Banca mondiale proprio per le conseguenze nefaste che a suo avviso comportava l’austerità imposta dal Fondo monetario all’Asia.In questo quadro di ripensamenti, il resto della Troika procede però in ordine sparso. La Commissione europea ha replicato ai dubbi del Fmi affermando di non avere nulla da rimproverarsi e ha difeso la posizione rigorista in quanto avrebbe «evitato il contagio». Per la Bce ha parlato il presidente Mario Draghi, il quale ha escluso un mea culpa, ma ha riconosciuto che se vi sono ragioni dietro gli errori se ne dovrà tenere conto in futuro. Al di là delle singole posizioni, il re è ormai riconosciuto nudo. Fare finta di nulla alla vigilia di un importante Consiglio dei capi di Stato e di Governo dell’Ue equivarrebbe ad avallare la politica dello struzzo. Con il rischio di porre le basi per futuri ripensamenti e ammissioni di errori. E gli errori li pagano solo i popoli, le persone concrete.
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